Tutto quello che non sopporto ha un nome.

Io, per esempio, non sopporto questo tipo di teatro. Non sopporto questi monologhi estrapolati dai romanzi, perché distolgono completamente il significato dell’opera, della sua trama, arrogandosi il diritto del lettore di immaginare le parole dell’autore.  Così è avvenuto a il 16 gennaio 2016 al teatro Miela di Trieste andando a vedere Iaia Forte che prova a interpretare il romanzo di Paolo Sorrentino, Hanno Tutti Ragione.

Forse perché avevo già letto il romanzo e mi aspettavo qualcosa di più, o forse  perché è sempre difficile vedere a teatro o al cinema qualcosa che tu hai letto e che in un certo senso hai assimilato, rimanendo però nella tua mente, nella stanza più intima e personale della tua immaginazione.

Anche in questo caso avevo interiorizzato in maniera diversa il protagonista, Tony Pagoda, una sorta di Cheyenne di This must be the Place ma con l’accento di Jep Gambardella de La Grande Bellezza. Un cantante neomelodico napoletano che – racconto il romanzo – a un certo punto si è stancato della routine dei concerti e se ne va in Amazzonia in piena solitudine a Manaus, provando a disintossicarsi dai suoi vizi principali: mondanità, donne e coca; finché viene rintracciato dopo quasi vent’anni, da un miliardario milanese che lo assume per cantare nelle feste private della sua villa. Con lui torna in Italia e la trova cambiata: dai modi, alle maniere e allo spettacolo; si accorge di essere effettivamente invecchiato e di aver buttato via la maggior parte della sua vita in pettegolezzi, vizi e piaceri fini a loro stessi.

Per chi ha visto almeno un film di Paolo Sorrentino, è un’occasione per approfondire la sua sensibilità, e l’esigenza di esprimere il disagio e l’imbarazzo dello stare al mondo dei suoi personaggi. Scopriamo anche un genio della narrazione romanzesca, dei colpi di scena e soprattutto del linguaggio: semplice ma, da buon partenopeo, ad effetto.

Il Tony Pagoda impersonato dalla Forte, invece, è soltanto il Pagoda dei primi quattro capitoli: il Pagoda mondano, donnaiolo e cocainomane che canta davanti a Frank Sinatra; che prende in giro i componenti della sua band e che va a prostitute. É solo il Pagoda iniziale: quello  che a me è parso stanco, patetico e insopportabile. Il Pagoda, invece, che prova  malinconia dopo essersene andato dall’Italia o che si accorge di essere diventato vecchio e di aver sprecato il suo tempo è presente solo negli ultimi sette minuti: troppo pochi perché lo spettatore capisca il cambiamento psicologico derivato dal turbamento interiore della sua storia. Troppo poco tempo perché lo spettatore si renda conto cosa sta accedendo in scena, troppo semplicista il finale, dove la Forte spiega il sogno che Tony ha fatto: lui a dieci anni con i genitori che gli prendono una mano a testa e che lo rassicurano: “Non ti lasceremo mai”. Ma Tony sa benissimo che mentono e infatti si sveglia e si sente non solo vecchio ma soprattutto abbandonato e solo.

Ma questa è solo una mia impressione: d’altra parte Iaia Forte è stata coraggiosa a portare in scena un romanzo complicato, dal punto di vista del linguaggio e della storia, e forse basta questo per apprezzarla: la sua bravura nella dizione napoletana. Ed è solo una delle cose che comprendo e riesco a sopportare della Forte. Se avrete la possibilità di andarla a vedere sappiate che ne uscirete con un’unica sola convinzione: hanno tutti ragione, quindi anche voi. Ed é già abbastanza per sopportare le cose che non sono piaciute.

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