Ad un lettore particolarmente razionale, il romanzo storico risulta particolarmente ostico. Nulla a che vedere con le minuziose digressioni politico – sociali o le lunghe descrizioni paesaggistiche: un lettore allenato riesce non solo ad apprezzarle, ma addirittura a ritenerle essenziali per un’esperienza di lettura a tutto tondo. Quello che spesso sconcerta è il concetto di verosimiglianza: non vero, ma neanche falso; non pura finzione narrativa, ma nemmeno verità storica solida e documentata. Un microcosmo di personaggi e vicende fittizie che pretende di essere incasellato in una cornice di verità assoluta, senza toccarne o modificarne i contorni: sembra impossibile che il contenitore e il contenuto possano oggettivamente andare d’accordo, eppure (con qualche stratagemma) lo fanno. Lavoro titanico, in questo caso, quello dello scrittore: perennemente in bilico tra l’inverosimile e il concesso, è uno dei pochi a saper fare i conti con i limiti della propria immaginazione.

 

Imprimatur è, probabilmente, un’opera in cui certe definizioni vengono portate all’estremo. Lo si nota in enormi pile all’ingresso delle librerie, ma fa davvero poco rumore: nonostante lo straordinario caso editoriale che lo accompagna (o proprio a causa di esso), passa sotto silenzio nella maggior parte della stampa e della critica italiana. E’ stato scritto e pubblicato per la prima volta nel 2002, ma non si vedeva nelle librerie del nostro Paese da almeno una decina d’anni; i suoi autori, coppia di giovani sposi al momento della stesura, si sono trasferiti a Vienna e non hanno più fatto ritorno; all’estero, Imprimatur è stato osannato dalla critica, ma non è riuscito a trovare in patria il successo che avrebbe meritato. Perché?

 

Il romanzo si presenta con una struttura piuttosto complessa: il corpo centrale è costituito dal resoconto, in forma di diario, di strani fatti avvenuti in una locanda romana tra l’11 e il 20 settembre 1683, seguito da un addendum e da alcune considerazioni posteriori ai fatti; nell’anno 2040, il Vescovo della Diocesi di Como riceve il manoscritto da due vecchi conoscenti, che sostengono di averlo elaborato a partire da fatti realmente avvenuti. Data la natura delle informazioni che il manoscritto diffonderebbe, egli ne verifica minuziosamente le fonti e, una volta tratte le proprie conclusioni, lo sottopone all’attenzione del Segretario della Congregazione per le Cause dei Santi in Vaticano. Fin dall’inizio della storia, il confine tra realtà e finzione è estremamente labile: il lettore viene continuamente sfidato in un gioco d’astuzia e perspicacia, fino alla soluzione finale (che, guarda caso, sembra proprio essere una verità mai rivelata, e finora tenuta nascosta, dal Vaticano).

 

L’atmosfera è, se volete, caravaggesca. In una locanda nel cuore di Roma, la morte improvvisa di uno dei pigionanti semina il panico: non è chiaro se si tratti di peste o di avvelenamento, ma tutti gli occupanti vengono rinchiusi in quarantena per scongiurare il rischio di contagio. In uno scenario che ricorda la claustrofobia dei Dieci piccoli indiani, un universo estremamente variegato di personaggi si muove alla ricerca di una soluzione al mistero; il diario delle vicende viene tenuto dal garzone della locanda, ma finirà sepolto in un manoscritto e verrà ritrovato solo secoli più tardi. La rivelazione finale sconcerta il protagonista stesso, che inconsapevolmente svela la verità su una delle congiure internazionali più determinanti di tutti i tempi: non solo politica, ma anche – e soprattutto – religione.

 

Rita Monaldi e Francesco Sorti, entrambi storici appassionati, documentano con rigore storico e filologico una scoperta fatta quasi per caso, grazie a documenti d’archivio e brillanti intuizioni, riuscendo anche a dipingere un formidabile affresco storico. Quasi immediatamente censurato dalla stampa italiana a causa delle rivelazioni sulla figura di Papa Innocenzo XI (Papa Odescalchi), il romanzo esplode nella critica letteraria estera e raccoglie incessanti consensi; particolarmente calzante appare il paragone del settimanale Spits, che lo definisce “un WikiLeaks in forma di thriller”. Reso nuovamente disponibile in Italia, a partire da settembre 2015, dall’editore Baldini&Castoldi, Imprimatur affascina il lettore con un impeccabile gioco di luci ed ombre, costringendolo ad una corsa all’ultima pagina che cambierà, inevitabilmente, la nostra prospettiva su determinati fatti storici. Riportandoci all’interrogativo iniziale: possiamo davvero distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso? La storia in sé è finzione, ma non possono esserlo anche i fatti su cui poggia. Imprimatur riesce ad essere, oltre ad appassionata e fedele denuncia (Vincit veritas!, citano i due autori in un altro dei loro romanzi), anche vivace schizzo storico, che coglie il meglio della letteratura mondiale di tutti i tempi e lo mette al servizio dei fatti. Quasi dispiace ridurlo alla categoria di romanzo: nessuna definizione, da sola, riuscirebbe a rendergli giustizia. Che lo leggiate come semplice storia o cerchiate di definire la portata delle sue rivelazioni, Imprimatur vi getterà in uno stupore ai limiti dell’incredulità. E non ci sarà razionalità che tenga.

Lascia un commento