Sono le due del pomeriggio: alcune giraffe si avvicinano al fiume per dissetarsi mentre un ippopotamo le guarda sbadigliando rumorosamente; sotto un baobab una leonessa osserva il territorio vicino ai propri cuccioli: ha già individuato un branco di gazzelle all’orizzonte, deve solamente scegliere il momento più opportuno per avvicinarsi e dare inizio alla caccia.

Se vi chiedessi di proseguire questa storia sareste tutti in grado di immaginare quello che potrebbe accadere, poichè la reazione di fuga della preda è una risposta comportamentale automatica e veloce, finalizzata ad un unico obiettivo: salvare la propria vita. Ciò che prova la gazzella un attimo prima di scattare è la sensazione di essere in pericolo, ovvero l’emozione comunemente chiamata, paura. Questa è fondamentale quanto la fuga stessa: è un allarme che segnala all’organismo l’esistenza di un pericolo imminente.

Lo stesso accade a noi uomini quando ci troviamo di fronte ad una minaccia: ancora prima di scegliere l’azione da compiere, il nostro corpo è già mobilitato fisiologicamente per scappare o attaccare. La reazione flight or fight, espressione inglese che significa proprio “scappa o combatti”, deve avvenire in automatico, ciò è necessario per ottimizzare il tempo e le risorse a disposizione: pensate ad un pedone che attraversando la strada vede un’automobile che sta per investirlo, potrebbe fermarsi a pensare alla miglior scelta per evitare l’impatto, ma, con ogni probabilità, non avrebbe abbastanza tempo a disposizione. Prima ancora che lui possa scegliere, il suo corpo è già attivo per correre verso il marciapiede più vicino: questo comportamento spontaneo gli salverà la vita!

Le emozioni definite primitive sono quattro: gioia, tristezza, paura e rabbia. Le espressioni facciali a loro collegate sono universali, poiché tutte le culture del mondo sono in grado di riconoscerle, così se un canadese ha la fronte corrucciata e uno sguardo aggressivo l’uomo giapponese di fronte a lui penserà che, forse, sia il caso di lasciarlo in pace, poiché potrebbe essere arrabbiato. Delle quattro emozioni primitive la maggior parte è collegata ad uno stato spiacevole (tristezza, rabbia e paura), mentre solamente la gioia è associata a sensazioni di benessere. Quello che emerge dalle neuroscienze affettive, disciplina in espansione negli ultimi anni, è un repertorio ben definito di espressioni facciali e azioni associate alle emozioni negative con un riscontro anche nell’attivazione di determinate aree del cervello e una funzione precisa, secondo una prospettiva evoluzionistica, come nell’esempio della gazzella. L’unica emozione positiva, invece, non sembra, ad un primo sguardo, possedere obiettivi legati alla sopravvivenza e viene da chiedersi cosa abbia permesso il suo mantenimento nella specie.

In prima battuta, la felicità si può associare ad un evento in particolare, al momento preciso in cui accade qualcosa: la reazione può essere un salto con le braccia all’aria, una risata, un abbraccio… E tutto questo è assolutamente vero, infatti si può parlare di felicità utilizzando termini diversi, come contentezza, eccitazione e così via… Spesso, quando si nomina la felicità si vuole intendere anche qualcosa di più stabile nella vita di un individuo, qualcosa che per alcuni è la serenità, per altri una continua ricerca di novità. È un’impresa ardua trovare un denominatore comune che possa descrivere la felicità in senso assoluto. Barbara Fredrickson, psicologa sociale e docente all’università della North Carolina, negli Stati Uniti, ha dedicato le proprie ricerche proprio al possibile ruolo delle emozioni positive. Secondo la Fredrickson la felicità o, più in generale, uno stato di benessere, promuovono comportamenti e pensieri di esplorazione che permettono di costruire nuove abilità e potenziare le proprie risorse: ad esempio visitare un luogo sconosciuto implementa le abilità di orientamento e permette di fare nuove conoscenze e ampliare la propria rete sociale. Contemporaneamente, l’organismo modifica il proprio funzionamento: ad esempio viene ridotta la produzione del cortisolo, l’ormone dello stress, normalmente alto in presenza di pericoli e minacce, così a cascata viene scongiurata la maggior parte delle conseguenze sulla salute, come l’aumento della pressione sanguigna, la crescita dello stato infiammatorio nelle cellule, il rischio di malattie cardiovascolari e molte altre. Nel momento in cui l’individuo non riesce a recuperare da una situazione negativa, come un evento spiacevole, un trauma o una malattia, oppure quando il livello di sofferenza psicologica e di attivazione, ciò che chiamiamo stress, rimangono costantemente ad un livello sostenuto, possono insorgere delle patologie.

Riprendendo l’esempio della gazzella e della leonessa, bisogna riconoscere agli animali la fortuna di attivare il proprio organismo solamente nelle situazioni che lo richiedono, come nel caso dell’inseguimento da parte del predatore; per quanto riguarda l’uomo, invece, anche in virtù della propria capacità di controllo, progettazione e monitoraggio degli eventi, le reazioni avvengono non solo a stimoli presenti in un dato momento, ma anche a minacce potenziali che vengono anticipate con una risposta d’ansia. Questa peculiarità dell’uomo, purtroppo, se non associata al recupero fornito dalle emozioni positive, può degenerare in tutte quelle condizioni che oggi vengono chiamate malattie da stress o, più propriamente, malattie psicosomatiche.

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Perchè alle zebre non viene l’ulcera? La più istruttiva e divertente guida allo stress e alle malattie che produce. Con tutte le soluzioni per vincerlo di Robert M. Sapolsky

 

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