Che fosse un’impresa titanica, di sicuro lo sapeva. Henri Fescourt ha creato un autentico capolavoro, purtroppo trascurato dai manuali di storia del cinema, con la sua versione di Les Miserables (1925) di Victor Hugo. Se registi come Hitchcock si rifiutavano di realizzare film tratti da grandi romanzi, un motivo c’è: le due ore del cinema convenzionale non renderebbero bene la complessità narrativa, filosofica, psicologica e semantica di certe opere. Questo è il motivo per cui Les Miserables durava all’epoca ben otto ore. Oggi, grazie al magnifico lavoro dei restautori di Tolosa, possiamo goderci oltre sei ore di una delle versioni più memorabili del capolavoro di Hugo.

Gli anni 20 erano quelli dell’impressionismo francese: un movimento artistico che, in assenza di un linguaggio audivisivo, rafforzava gli stati d’animo dei personaggi con raffinate tecniche cinematografiche: le angosce e gli stati confusionali sono accentuati con messe a fuoco e filtri colorati che fanno capire la dimensione interna del personaggio in questione.

Fescourt, dal canto suo, non solo adopera a perfezione le tecniche inventate e consolidate da maestri impressionisti come L’Hervier o Duvivier, ma sfrutta la complessità narrativa dell’opera, inserendo anche innovative tecniche di montaggio. Il linguaggio impressionista si presta al meglio, infatti, per narrare il calvario di Jean Valjeant, e la sua raison d’être, Cosette. Non solo perché quando i personaggi sono turbati, il regista ci regala piani riavvicinati sfuocati per risaltare lo stato di tensione, ma anche perché, come i russi, usa il montaggio analitico per collegare gli eventi esterni a quelli interni (o meglio, dell’anima, come direbbe Hugo). Per esempio, nel libro, Hugo esprime la psicologia di J. Valjeant in una forte sintonia con gli elementi naturali: il cielo si apre e si chiude proprio come il cuore del personaggio. Fescourt rispetta questo principio facendo giochi di luce strabilianti, con superbe inquadrature del cielo e delle nuvole passanti, come fossero i pensieri del turbato Valjeant. Inoltre, gli elementi più importanti del libro sono: le monete, i fiori e le lettere. Fescourt non esita a dare loro un ruolo fondamentale: inquadrandole in primi piani, come fossero veri e propri personaggi, se non protagonisti. Altro elemento importantissimo del libro, non trascurato dal regista, è il trittico  composto dal crocefisso (simbolo di salvezza) al centro, e i candelabri (simboli della luce, della chiarezza) ai lati. Ogni volta che il crocefisso viene tolto dal suo posto, il regista inquadra i candelabri spenti, che raffigurano così il sentimento di vuoto e solitudine di Valjeant, in assenza del crocefisso. Proprio come nel libro!

Molto ben reso anche il dualismo tra i personaggi miserabili e quelli ricchi, oltre che tra quelli puri d’animo e quelli malvagi. Da segnalare la presenza di piani ravvicinatissimi soltanto per rafforzare la tenerezza degli occhi di Cosette, da piccola. Tre anni più tardi, Dreyer avrebbe usato tecniche simili per La passione di Giovanna D’arco. Insomma, il film cerca di rendere poetiche le immagini e ci riesce, come Hugo riesce a rendere poesia la sua prosa. In più, le interpretazioni di Gabriel Gabrio (Valjeant) e Sandra Millowanoff (Cosette) sono memorabili.

Purtroppo c’è da segnalare anche qualche difetto tecnico: capita di trovare raccordi sbagliati, ma soprattutto, in una scena che raffigura un morto, l’attore palesemente respira. Tuttavia, nel complesso Fescourt gestisce benissimo il dinamismo, lo scorrere del tempo e la tensione.

Sei ore passate in fretta, merito anche dell’eccellente musica di Neil Brand. Tutto il teatro è balzato in piedi ad applaudire alla fine del film. E gli scettici che pensano che i film lunghi siano da evitare? È bello ricredersi.

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