Il destino delle statue dice spesso molto di più del destino degli uomini. Nel caso di Lenin, il corpo imbalsamato rimasto sulla Piazza Rossa e i migliaia di monumenti disseminati nello spazio post-sovietico raccontano un rapporto irrisolto con la memoria del comunismo e con l’identità dei popoli che l’hanno ereditata. Antonella Salomoni, nel suo lavoro Lenin a pezzi. Distruggere e trasformare il passato esplora questo continuo oscillare fra demolizione e conservazione, oblio e recupero per ricostruire l’immagine di un mito fatto letteralmente a pezzi.

Il primo grande momento di rilettura della figura di Lenin coincide con la perestrojka di Gorbaciov. Fino al crollo dell’URSS, Lenin viene proposto come riferimento politico “puro”, il padre fondatore da contrapporre alla degenerazione staliniana. È un tentativo di recuperare legittimità attraverso il ritorno alle origini del sistema sovietico, un momento di riflessione sul passato e di parziale riabilitazione. Tuttavia, questo recupero dura poco. Il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e poi lo scioglimento dell’URSS nel 1991 aprono la strada a un ripensamento radicale e iconoclasta: monumenti, statue, simboli del potere sovietico vengono abbattuti o rimossi.

Qui si apre una differenza fondamentale fra Europa orientale e paesi dell’ex URSS. Nell’Europa centro-orientale la demolizione è immediata e partecipata. In Polonia i primi abbattimenti sono incoraggiati dal basso, tollerati dalle nuove autorità e percepiti come atto di liberazione collettiva. A Bucarest, nel 1990, la statua di Lenin cade dopo settimane di scioperi: al suo posto viene eretto un monumento alle vittime del comunismo. Non si tratta solo di rinominare piazze e viali, ma di risignificarli, trasformandoli in spazi della nuova memoria collettiva.

Diverso è il caso degli stati ex sovietici. Qui Lenin rimane più a lungo una presenza ingombrante, una memoria “invasiva” perché collocata nei punti centrali delle città, davanti a scuole, ospedali e piazze principali. Nel 1991 esistevano quasi 14.300 monumenti a Lenin in tutto il territorio sovietico: circa la metà in Russia, 5.500 sparsi nelle altre repubbliche e persino in paesi alleati. Alcuni vengono smantellati e depositati in magazzini, altri resistono.

L’Ucraina rappresenta il caso più emblematico. Già dal 1990 un movimento iconoclasta accompagna la spinta all’indipendenza e negli anni successivi esplode il fenomeno chiamato “Leninopad” – letteralmente “caduta di Lenin”. Dopo l’Euromaidan, la distruzione delle statue diventa di massa, un gesto radicale di distacco dall’eredità sovietica e di avvicinamento all’Europa. Nel gennaio 2021 restavano solo poche centinaia di statue, concentrate nelle regioni orientali del Donbass, dove la presenza russa è più forte.

La Russia, invece, non ha mai compiuto una scelta netta. L’iconoclastia è rimasta marginale e selettiva. Lenin è considerato una figura problematica: da un lato, accusato di aver introdotto nella prima costituzione sovietica il diritto alla secessione delle repubbliche, dall’altro mai davvero rimosso. Il suo corpo imbalsamato sulla Piazza Rossa è il simbolo di questa ambiguità. Distruggere è un gesto politico, ma anche conservare lo è.

Stalin, per contro, conosce una rivalutazione aggressiva e funzionale alla politica di Putin. Negli ultimi anni sono sorte nuove statue in luoghi significativi della sua vita, mentre i processi di condanna dei crimini staliniani vengono messi in discussione. Non si parla più di un sistema da condannare, ma di “eccessi” con colpe individuali. Stalin rimane così l’eroe della vittoria sul nazismo, cardine del patriottismo russo.

A complicare il quadro interviene la Chiesa ortodossa, alleata dello Stato. Per quanto in difficoltà nel prendere una posizione netta non mancano tentativi di forte demolizione dell’immagine di Lenin. Come il documentario La mummia, prodotto di recente, che attacca Lenin con toni complottisti e persino satanici.

L’iconoclastia post-sovietica può essere assimilata alla cosiddetta cancel culture occidentale? In parte sì: quando nasce come spinta dal basso, come gesto di piazza che esprime distacco dal passato. Ma ci sono tratti originali, soprattutto nell’uso creativo degli spazi liberati. In Ucraina, a Odessa, una statua di Lenin è stata trasformata in un Darth Vader di Star Wars. A Berlino Est, la grande statua di Nikolaj Tomskij è stata al centro di proposte artistiche radicali: avvolgerla di edera, sdraiarla a terra come simbolo di caduta, ricoprirla con i teli dell’artista Christo. Infine è stata spezzata in più di cento pezzi, sepolti in un luogo segreto per evitare pellegrinaggi. Anni dopo, la testa è riemersa come reperto museale.

Il destino di Lenin non è dunque solo quello di un leader rivoluzionario trasformato in reliquia. È soprattutto quello di un simbolo che continua a frammentarsi, tra distruzione, risignificazione e musealizzazione. Ogni abbattimento o conservazione diventa un gesto politico e culturale: i pezzi di Lenin sparsi nello spazio post-sovietico ricordano che la memoria non si cancella mai del tutto, ma cambia forma.