Giovanni Papanti, ne I parlari italiani in Certaldo, alla festa del V centenario di messer Giovanni Boccaccio, presenta tre varietà diverse di pordenonese nella sua traduzione della novella nona della prima giornata del Decamerone, di cui una “contadinesca” e sostanzialmente friulana, l’altra “degli artieri”, e l’ultima “della borghesia”, entrambe quest’ultime di matrice veneta. La prima variante testimonia la parlata del contado locale, conservativamente friulana rispetto alla lingua parlata in città. Si può affermare con una certa tranquillità che non differisca molto dal “folpo” parlato oggi dai friulanofoni di Cordenons, o per certi aspetti dalle parlate friulanofone di Roveredo o Aviano. Tra le due parlate venete testimoniate invece, quella che, per diversi motivi, principalmente economici, si è diffusa in città ed è parlata ancora oggi, è quella “degli artieri”, che grazie al portentoso sviluppo economico di Otto e Novecento hanno visto prosperare i loro commerci e dunque sono ascesi sino a diventare il ceto più prestigioso in città. Questa variante, per certi aspetti, è più simile al friulano rispetto a quello “della borghesia”, in cui la matrice veneziana è chiara. L’aspetto principale che avvicina la variante “degli artieri” al friulano (e ad alcune varietà trevigiane) è il trattamento delle vocali latine in fine di parola, che spesso scompaiono.

Il dialetto è utilizzato tuttora molto in città, nonostante la forte presenza dell’italiano, che, sempre per motivi economici è stata la “lingua franca” parlata tra i locali e gli italiani di tutta la Penisola giunti per ricoprire ruoli nell’industria e nell’esercito. È adoperato con grande orgoglio soprattutto dai ceti più alti della città, e anche da chi vuol sottolineare la propria appartenenza al centro urbano e alla sua gloriosa storia “libera” e veneta.

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