Quando andavo alle elementari, le maestre ci facevano recitare la nascita di Nostro Signore nei testi friulani di un certo Carlo Sgorlon. Titubante, quando lo seppi che dovevamo recitare in una lingua diversa da quella italiana, mi lamentai perché non conoscevo assolutamente alcuna parola in friulano. Mi mamma allora, prese un libro, Il Dolfin, aprì una pagina a caso e mi chiese se ero in grado di leggerla ad alta voce e ci riuscii. La spiegazione era, ovviamente che il mio orecchio si era allenato a comprendere il friulano ma non a parlarlo, dato che le uniche persone che mi parlavano friulano erano i miei nonni paterni e mio padre. Iniziò così il mio timido sodalizio verso la lingua dei miei antenati con la quale, però, mantengo un tiepido rapporto: quando mio nonno novantenne inizia a parlarmi in friulano gli rispondo in veneto. Da un discendente diretto friulano-carnico, mi devo vergognare, in quanto traditore dei costumi e della tradizione, cosa ce difatti faccio, mantenendo però quell’orribile abitudine a dire ‘aprire la luce’ o ‘chiudere la luce’ in italiano, dimostrando comunque che un briciolo di speranza nel mantenimento linguistico del mio friulano ci può ancora essere.
Ma torniamo a Sgorlon: secondo di cinque figli, nasce nel 1930 a Cassacco e cresce assimilando la cultura contadina friulana che rappresenterà nella sua futura produzione letteraria. A soli diciotto anni viene ammesso alla Normale di Pisa presso al quale si laureerà in lettere con una tesi su Kafka. Quindi inizierà a insegnare alle superiori di Udine e così anche la sua carriera di scrittore.
La sua figura in quanto intellettuale è assai differente rispetto a quella di molti altri autori italiani: lui narrava storie reali in un mondo fantastico, mettendo insieme elementi storici e magici che riescono cosi a convivere come livelli diversi di uno stesso ambiente. Poeta che riusciva a trovare un equilibrio con la storia e con l’ambiente in cui si innesta il ciclo delle sue esperienze; in quasi tutte le sue opere si percepiscono i suoi studi e gli stimoli del nonno – maestro elementare in pensione – ponendo nei racconti tradizionali anche le fiabe narrate dalle gente del suo piccolo paese contadino.
I temi di fantasia e di saggezza popolare sono mescolati ai grandi autori come Dante, Ariosto e Petrarca che emergono in quello che lo stesso autore definisce come una fase culturale europea. Pubblica così il suo primo romanzo Il Vento del Vigneto (1960) che tradurrà personalmente in friulano undici anni più tardi col titolo di Prime di sere. Qui Carlo parla di un tema esistenziale ispirato al mondo contadino e prova a raccontare il faticoso discernimento di un ergastolano graziato che torna nel suo paese natale.

Successivamente muta il suo registro narrativo. Ne La Poltrona (1968); La notte del regno mannaro (1970) e La luna color ametista (1972) impone all’attenzione della critica i ritmi nevrotici ed affannosi dei personaggi che stentano a realizzarsi nella vita, cedendo via via a storie sempre più corali. Da questo cambiamento, pubblicherà nel 1973 il Premio Campiello Il Trono di Legno dove tratta la storia di un narratore di vicende fantastiche che non sa ancora di essere l’erede di una cultura soltanto assopita e non cancellata del tutto.
La sua vita intanto trascorre tranquilla, pubblicando altri libri (La Regina di Saba nel 1975, Gli dei torneranno nel 1977 e La carrozza di Rame nel 1979) e insegnando Storia e Italiano negli Istituti Tecnici udinesi e a volte getta i panni dell’intellettuale per vestire quelli dell’artigiano e del contadino nella sua casa natia. In questo modo compone La Contrada (1981) in cui racconta la vita di periferia di un gruppo di amici e sviluppa il tema sulle delusioni dell’uomo moderno. A ruota vince poi un altro Premio Campiello, nel 1983, con La Conchiglia di Anataj in cui si esprime sull’esigenza del recupero delle proprie radici. Due anni dopo vince il Premio Strega con L’Armata dei fiumi perduti, romanzo ispirato alle vicende poco note della duplice tragedia del popolo cosacco e del popolo friulano, la cui terra venne donata ai primi come bottino di guerra dall’invasore tedesco. Scrive poi I sette veli, che opera che renderà in friulano con il titolo de Il Dolfin.
Negli anni novanta inizierà poi a pubblicare romanzi riguardanti le foibe (La foiba grande, 1992 e a cui segue Il regno dell’uomo del 1994). A questo filone poi rievoca con La malga di Sȋr (1997) le vicende tragiche e poco note dal punto di vista nazionale come l’eccidio del Porzus, in cui i partigiani comunisti e titini uccisero un gruppo della brigata Osoppo a cui apparteneva il fratello minore di Pier Paolo Pasolini e l’omonimo o zio del futuro cantautore romano Francesco De Gregori.
Pubblica poi un anno dopo, nel 1998, Il Processo di Tolosa, una storia surreale della vita di un ragazzo legato al mistero di Lazzaro in Francia seguito poi da Il Filo di Seta (1999) dove racconta gli incredibili itinerari del beato Odorico da Pordenone, viaggiatore medievale friulano paragonabile solo a Marco Polo, che ha affascinato l’autore per il suo modo di confrontarsi con la diversità dei luoghi asiatici nel XIII secolo. L’ultima fatica letteraria dell’udinese è pubblicata nel 2008: si tratta de La Penna d’oro: è un’autobiografia cui Sgorlon ha deciso di farsi portavoce in prima persona della sua vita e della sua poetica. Qui si racconta con sincerità ma con un pizzico di polemica costruttiva e disincanto; egli ricorda la propria vita personale e professionale come se osservasse un altro se stesso dal bancone della sua casa friulana. Questo straniamento lo trasforma nel protagonista di un’affascinante storia privata.
Sazio della vita, consapevole di essere arrivato alla propria fine, Sgorlon ha voluto darci con questo romanzo di congedo il suo arrivederci. Consapevole dell’importanza delle saggezze popolari e dell’esigenza di trasmetterle alle future generazioni, ci ha lasciato infatti la notte di natale del 2009, data tutt’altro che indifferente per la sua storia.

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