Nel cuore del Friuli, in particolare nella zona a destra del Tagliamento, la lingua racconta una storia antica, fatta di incontri e stratificazioni culturali. Nella parlata pordenonese si ritrovano infatti moltissimi termini che affondano le loro radici nel mondo celtico-carnico, tracce linguistiche affascinanti che si sono intrecciate nel tempo con il latino e le successive evoluzioni locali.
Molti di questi vocaboli sono ancora vivi nel dialetto, altri sopravvivono nei toponimi, altri ancora solo nei ricordi di chi conosce a fondo la parlata tradizionale. Scopriamo insieme alcune di queste parole, ognuna con una piccola storia da raccontare.
Partiamo con Alauda, che oggi ci fa pensare subito all’allodola, ma che un tempo era anche il nome di una legione gallica, celebre per il ciuffo piumato che i soldati portavano sugli elmi. Il termine arriva da alaudula, di origine gallo-celtica, e vive ancora nel friulano lodule e nel pordenonese lodola.
Bar è una parola semplice, che indica un ramo, una fronda, ma anche un cespuglio nella parlata pordenonese. E parlando di vegetazione, Barros si avvicina a un ciuffo d’erba, richiamando il friulano bâr, usato per descrivere zolle erbose o cespi.
Bastrovlein è una parola dal sapore rustico: significa affastellare, mettere insieme alla meno peggio, come suggerisce il verbo pordenonese pastrociar, parente del friulano pastrocia, che evoca l’idea di confusione e disordine.
Passando al mondo animale, Beber ci porta dritti ai castori. Non solo una parola, ma una radice che ha lasciato traccia nei toponimi come Biverone, frazione di San Stino di Livenza, o Monte Bivera, in Carnia.
Curiosamente, Bec è anche il termine per il caprone, sia in friulano che in pordenonese. Da qui derivano parole comuni come becher (il macellaio) e becheria (macelleria). E se si sente dire Boc o Buic, si parla sempre dello stesso animale, con radici nel latino buccus.
Alcuni termini ci riportano agli abiti e alla vita quotidiana. Bracae, ad esempio, erano i pantaloni: in friulano braghessis, in pordenonese semplicemente braghe. Caimis, invece, era una tunica corta, da cui derivano le moderne camisa e camis.
Ci sono anche parole che raccontano di forza e violenza: Bris, radice del verbo “spezzare”, vive ancora nel pordenonese sbriso (stracciato). E Brett, con la sua lama ricurva, ci fa pensare a coltelli da tasca: in friulano britule, in pordenonese britola.
Groa, il ghiaione, diventa grave, mentre Karn è una parola potentissima: significa roccia, ma anche popolo. È da qui che nasce il nome della Carnia.
Kott indica una sopravveste sacerdotale, da cui derivano i termini cotule e cotola, ancora vivi nei dialetti.
E poi c’è Lucar, un termine che evoca bellezza e luce, ancora presente nel pordenonese lughero.
Mor è più semplice, più dolce: la castagna. Moron e maron sono le sue forme vive. E per cucinarle serve il Rost, il fuoco. Arrostire, rostir in pordenonese, ha origine proprio qui.
Più in generale da Sapo, con la sua mistura di sego e cenere, serviva un tempo ai Celti per i capelli: da qui il nostro sapone.
Slap, che ha tutto il suono di un ceffone: slepe e slepa lo confermano.
E ancora: Tamisium, il setaccio, ci ha lasciato in eredità tames e tamisio, mentre Tarvos, il dio celtico Toro, potrebbe aver dato il nome a Tarvisio.
Infine, il Trevs, nucleo familiare celtico chiuso da recinti, ci parla di origini antiche e radicate: Treviars, Travesio, Treppo, tutti nomi che ne sono testimonianza. Chiude la carrellata Troig, il sentiero, è ancora oggi presente nella toponomastica pordenonese, come nella “Via del Troi”.

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