In tutte quelle produzioni hollywoodiane che dipingono una madre single che vive in un sordido monolocale con un figlio e una tenace dipendenza da crack e che ripete, subito prima di raggiungere il fondo del barile, sono-la-madre-migliore-del-mondo-quando-sono-fatta, spesso ricorre il cliché dell’ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo come una sorta di panacea per una storia che, altrimenti, non avrebbe offerto nessun motivo per uscire dalla sala soddisfatti da un finale catartico.

Ebbene: chi scrive non è una madre single tossicodipendente ma è perfettamente a conoscenza di avere un problema; solo che io, a differenza della madre single tossicodipendente, non ho la minima intenzione di risolverlo. Ho un problema con quegli universitari che trascinano la propria settimana fino al venerdì per potersene tornare a casa. Sono quelli che, a lezione di Analisi Numerica, abbandonano i trolley proprio accanto alla porta, armati del palese intento di lasciare la città con il primo treno delle 13:52 e che permettono a noialtri di sprecare l’intera lezione per fissare quella triste masnada di valigie su ruote. Perchè, in cuor nostro, sappiamo benissimo che non solo ostruiranno l’uscita dall’aula come ombrelli di madri iperprotettive davanti alla scuola elementare in un qualsiasi giorno di pioggia, ma anche che quegli stessi trolley ci aspetteranno lunedì mattina in autobus, e che ad ogni curva o accelerazione o fermata si sposteranno su quelle maledette quattro rotelline inseguendoci per gli angusti corridoi dei mezzi pubblici con la stessa brama di un masso sferico dei film di Indiana Jones.

Il mio problema – questo mi riesce più difficile ammetterlo – è che sono stato anche io uno di loro (beninteso, non ho mai usato trolley a 4 rotelle né ho mai lasciato le mie borse in aule universitarie, ma tant’è). Sono stato anche io uno di quelli che guardano alla città dove si studia con l’occhio di uno squatter londinese, ansioso di tornare al paese natale per la familiarità delle amicizie di lungo corso, dei pasti domenicali in famiglia, dei vestiti lavati e delle camicie stirate da entità ignote. Tuttavia, allo stesso modo di quelle produzioni cinematografiche di cui ho scritto in apertura, quella degli squatter universitari è una condizione dello spirito umano da cui è possibile – forse semplice, persino – uscire. E’ successo allora che scoprissi quel baracchino di Barcola, il Round e il Grip (R.I.P.), i pranzi delle domeniche primaverili in osmiza; che un’amica mi dicesse di aver contribuito all’apertura di un nuovo spazio in via Valdirivo 15.

Il Lab15 è un’associazione culturale che colma un vuoto e insieme propone un’alternativa. E’ l’unico spazio in cui è possibile seguire dei corsi di lingua, coltivare l’interesse per le arti e per il teatro, trovare le ripetizioni necessarie a passare il compito di filosofia o l’esame di Analisi I, praticare ginnastica, ballare la danza del ventre, nutrirsi di prodotti genuini e biologici. La prossima settimana, dal 18 al 22 gennaio, ospiterà una open week di corsi gratuiti per farsi conoscere e gettarsi sulla lingua delle persone. Il locale, nel cuore della città, si divide in due aule per le lezioni di lingua e le ripetizioni e un un’ampia sala per i corsi di ballo. Hanno una pagina Facebook molto curata in cui trovare tutti gli eventi, una mail per le informazioni sugli eventi (info@illab15.com) e, per chi comunque volesse rifiutarsi di usare i mezzi tecnologici da giovinastri, sono comunque contattabili al 388 3980768.

Ah, dimenticavo che organizzano pure dei corsi di pizzica.

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