Qualche mese fa mi trovavo in vacanza in Dalmazia, girovagando via mare tra la regione di Sebenico e quella di Spalato. Inutile descrivere la bellezza di questi posti: isole, villaggi e città che dimostrano ancora oggi la grande storia della Serenissima, con quei caratteri veneziani e paesaggi carsici che non ti fanno sentire mai lontano da casa. In tutto questo viaggio mi trovavo su un’isola che all’epoca del comunismo jugoslavo era una roccaforte militare: Zuri, o Zirje in croato, era un’isola di frontiera, a cui era impossibile accedere fino a vent’anni fa, che ospitava diversi bunker in cemento armato (oggi abbandonati ma completamente visitabili); un’isola che prima dell’età moderna altro non era che una mezza pietraia carsica che aveva conosciuto una breve presenza bizantina.

A Zuri per una strana coincidenza, mentre passeggiavo lungo i sentieri, ho trovato e raccolto una moneta italiana del 1941. Superfluo dire la sorpresa di rinvenire in un’isola straniera lontana da casa un tale oggetto. Inizialmente verrebbe da pensare quanto ho pensato io: che la moneta in questione, 50 centesimi di lira, fosse stata persa da un soldato durante la nostra occupazione della Dalmazia tra il 1941 e il 1943, quando la regione era stata annessa al Regno d’Italia. Romantico quindi pensare che dopo più di 70 anni il tondello di metallo sarebbe finalmente tornato a casa. Tuttavia indagando più a fondo sono giunto a ben altre conclusioni: tra gli italiani non furono soltanto soldati del Regio esercito a sbarcare sull’isola e in genere in tutto l’arcipelago dalmata, ma anche partigiani per buona parte provenienti dal Friuli-Venezia Giulia e dal Regno del Sud.

Nel contesto della Resistenza italiana poco si sa di questa pagina di storia. Dopo l’8 settembre ’43 molti militari del Regio esercito, volontari, decisero di dare un contributo diverso da quello che normalmente ci si aspettava da chi proveniva da un territorio già liberato dagli Alleati. Si trattava di un centinaio di soldati e marinai che abbandonarono l’Italia del Sud per approdare all’altra sponda dell’Adriatico. I motivi che spinsero questi uomini a tale scelta, ossia di lasciare una parte della propria patria, ormai libera e tranquilla, per tronare nuovamente sul campo erano vari: tra tutti il più importante sicuramente è lo spirito antitedesco che li muoveva, oltre al fatto che, dalla caduta della dittatura e dall’armistizio, nulla era cambiato circa la prassi militare. L’esercito, infatti, era ancora in mano agli stessi uomini di prima, senza contare che non vi era stata una riabilitazione e una riammissione tra le file militari di quei soldati condannati dai tribunali militari per antifascismo.

Questa divergenza di vedute spinse costoro, su aiuto degli Alleati, a imbarcarsi con motovedette e pescherecci verso la Dalmazia, allo scopo di contribuire alla resistenza locale contro i tedeschi e gli ustascia croati, senza per questo essere sotto il comando del Regio esercito. Con loro vi erano anche molti triestini e giuliani, ex prigionieri di guerra in Africa, desiderosi di dare il loro contributo. Sbarcati sull’isola di Lissa/Vis, vennero subito inquadrati nelle “Prekomorske Brigade” (Brigate d’oltremare) dell’esercito di liberazione jugoslavo del maresciallo Tito. Gli italiani così inseriti venivano poi assegnati, in base alle loro mansioni, ai diversi gruppi partigiani sulla costa, in particolare e in molti casi in reparti di imbarcazioni armate addette agli sbarchi sulle isole, ai rifornimenti o ai collegamenti.

Numerosi furono quindi i combattenti italiani che si batterono, come mitraglieri o motoristi, con valore in questa flottiglia composta prevalentemente di barche di legno armate di tutto punto, che attaccavano, specialmente di notte, le armatissime motovedette tedesche. Una flottiglia che si suddivideva in base al territorio o isola ad essa assegnato: vi era la flottiglia di Lissa (Viska flotila), di Brazza (Bracka flotila), di Lesina (Hvarska flotila), persino del Quarnaro (Hvarneska flotila). L’ammiraglia dell’intera flotta era la “Crvena Zvijezda“, la Stella Rossa, il cui destino fu di colare a picco dopo essersi imbattuta in un area di mare minata.

Pochi sanno che queste barche, chiamate “Patrolini camac“,  salvarono anche centinaia di soldati italiani dalla prigionia tedesca. In genere salpavano all’imbrunire da Lissa in direzione di Brazza e da qui verso il canale di Lesina, verso Macarsca, sotto la catena montuosa del Biokovo, dove si imbarcavano lunghe file di italiani sfuggiti ai tedeschi e agli ustascia. Scalzi, laceri, affamati, venivano poi trasportati nell’Italia libera, qualora non avessero voluto prendere parte alla resistenza locale contro l’odiato tedesco. Per arrivare a questo “punto d’incontro”, nel mezzo del canale (da non intendere come canale agricolo o di scorrimento d’acqua ma come corridoio marittimo tra due isole o tra un’isola e la terraferma) venivano spenti i motori per evitare che le guarnigioni nemiche sulla costa potessero rivelare la presenza delle imbarcazioni e colarle a picco, non tanto per il rumore quanto perché le scintille del tubo di scarico potevano facilmente tradire la presenza della flotta partigiana nell’oscurità della notte, soprattutto quando incrociavano le frequenti motovedette di pattuglia tedesche sotto costa. Le barche quindi venivano spinte a remi fino a riva.

Però capitava che queste imbarcazioni venissero individuate dai riflettori nemici e sopraffatte dalle 20 mm a quattro canne delle motosiluranti tedesche. La sorte di un italiano catturato mentre combatteva nella resistenza di un paese estero non lasciava spazio a interpretazioni: nessuna resa o prigionia, pagava più degli altri con la morte. Con il passare dei mesi alla flottiglia partigiana si aggiunsero anche pescherecci rimaneggiati con mitragliere e cannoncini, al fine di renderli in grado non solo di garantire i trasporti e i collegamenti ma anche di prendere parte ad azioni di guerra. Questa flotta sì rinnovata si rese protagonista della liberazione di molte isole, tra cui Sabbioncello/Pelješac, Isola Lunga/ Dugi Otok, Puntadura/Vir, Melada/Molat, Isto/Ist, Premuda, con violenti combattimenti sull’isola di Pago (in cui sotto il fuoco ustascia caddero molti partigiani italiani), e collaborando attivamente anche alla liberazione di Spalato e Sebenico.

Considerando tutti gli sforzi fino a quel momento fatti, nel 1944 venne costituito a Lissa un grosso reparto, il “Pjesadija Mornarica” o Fanteria di marina, i cui componenti italiani erano in larghissima parte provenienti dal Friuli-Venezia Giulia. In contemporanea se ne formava un altro, più corposo e famoso, composto prevalentemente da militari provenienti dal Sud Italia: la V Brigata italiana Antonio Gramsci, inquadrata nella “I Udarna Dalmatinska Brigada” (I Brigata Dalmata d’Assalto). Tali battaglioni sfilarono nell’estate di quell’anno a Lissa di fronte al maresciallo Tito sventolando il tricolore italiano.

Liberata Spalato nel 1944 e concluse tutte le operazioni nell’entroterra, con la fine della guerra, i combattenti italiani rimpatriarono via Ragusa di Dalmazia/Dubrovnik– Brindisi, Bari o Taranto nell’aprile del 1945, mentre altri, i più ideologizzati e accaniti, raggiunsero via terra l’Italia governata dal CNL. I rimpatriati a Sud non ebbero una calda accoglienza da parte delle autorità monarchiche: molti subirono interrogatori e inchieste, un’ulteriore dimostrazione che nulla era ancora cambiato nella vecchia casta militare e nel sistema di governo che con molto disappunto avevano volutamente abbandonato.

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