Trieste è stata, nel momento di primo splendore settecentesco, una città di grande interesse commerciale e culturale. Molti sono passati per il suo porto, molti anche sono rimasti, innamorati di una città unica nel suo genere, quale crocevia di popoli e tradizioni in un paesaggio, quello carsico, unico al mondo. Però non tutti vengono qui perché affascinati dall’unicità o dalla bellezza o ancora da interessi commerciali: alcuni vengono per allontanarsi dal mondo, costretti o volontariamente. In questa occasione abbiamo avuto modo di intervistare uno dei più illustri ospiti di Trieste, esiliato dalla sua Patria per la sua carriera e il suo passato un po’ troppo scomodi: Joseph Fouché.

-Signor Fouché vi ringraziamo per l’opportunità che ci avete dato di intervistarvi. Prima di cominciare con domande più mirate, i nostri lettori sarebbero curiosi di conoscervi meglio: potete farci una breve presentazione?

Grazie a voi per esservi ricordati di me, per quel che mi riguarda è una grande occasione per tentare di riabilitarmi. Qualche informazione su di me? Vediamo: sono nato a Nantes, in Francia, nel 1759 in una famiglia di commercianti e marinai. Circa i primi anni di scuola, fui inizialmente mandato a prendere gli ordini minori al seminario della mia città ma proprio per merito del mio interesse per le scienze non ebbi remore ad abbandonare la carriera ecclesiastica. E devo dire, col senno di poi e nonostante mi trovi impossibilitato a tornare in Patria, che non mi pento della scelta.

-Per quale motivo?

Perché se non me ne fossi andato, non sarei mai diventato un pezzo grosso della Revolutiòn.

-Potete spiegarvi meglio?

Certamente! Proprio durante i miei studi al di fuori del seminario ebbi l’occasione di conoscere Maximilien de Robespierre, grazie al quale divenni uno degli animatori del club dei giacobini. Tutto questo mi portò nel 1792 a venire eletto deputato per la mia regione (regione della Loira minore, ndr) alla Convenzione. E questo fu solo il mio trampolino di lancio.

-Quindi, essendo giacobino, non avrete amato molto la monarchia…

No affatto! E non mi pento di aver votato la morte del re Borbone (Luigi XVI, ndr). La monarchia andava abolita in ogni sua forma, per il bene del popolo. Tuttavia non era possibile restare fedeli a un gruppo politico senza avere gravi conseguenze: i realisti, i giacobini, i montagnardi, gli hebertisti… tutte facce di una stessa medaglia.

-Ma sappiamo che voi foste al centro di un evento che fece scandalo…

Se vi riferite alla rivolta di Lione del 1793, ho fatto quello che andava fatto. Come ho detto in passato: i re punivano lentamente, perché erano deboli e crudeli; la giustizia del popolo deve essere rapida come l’espressione della sua volontà (a Lione avvenne una strage di realisti compiuta da Fouché su ordine della Convenzione, ndr).

-Non andiamo a indagare di più. Ma è per questo che voi vi trovate qui, a Trieste?

No, affatto! (*sorride) La mia storia non finisce di certo qui. Sarò breve: in seguito presi parte a un complotto per abbattere il Comitato di Salute pubblica di Robespierre, il che riuscì. Ma la vera svolta fu, qualche anno più tardi, con un altro colpo di stato: all’epoca, si parla del  1799, ero riuscito a diventare ministro della polizia dopo un lungo e travagliato percorso. Verso i primi di novembre però la situazione in Francia era così degenerata che ormai il Direttorio (organo istituzionale istituito dopo l’abolizione del Comitato di Salute pubblica, ndr) stava per cadere a pezzi e con esso tutte le conquiste della Rivoluzione. Sembrava che il fratello del re Borbone stesse per riprendersi il trono (quello che poi diverrà re Luigi XVIII, ndr). Fu intorno ai primi del mese che si presentò presso il mio ufficio un generale còrso recentemente tornato dall’Egitto con una proposta tanto interessante quanto rischiosa: aiutarlo a prendere il potere entro pochi giorni con la promessa di rivedere confermata la mia carica a cosa avvenuta. Mi pose davanti alla scelta senza nemmeno pensarci. Mi disse di essere lui l’unica speranza che avevo: qualora il colpo di stato fosse stato scoperto, sarei stato fucilato per aver tentato di abbattere il Direttorio. In alternativa, dato ciò che avevo fatto a Lione, sarei stato fucilato dai realisti non appena il re sarebbe tornato al trono. Non avevo scelta, dovetti accettare per forza.

-Stando però a quanto ci sta raccontando, non sembra un valido motivo per scappare lontano. In fin dei conti è noto che con quel colpo di stato chi sostenne Napoleone fece carriera…

Lasciatemi finire. E’ vero, con Bonaparte feci carriera: durante il consolato e l’impero istituii una forza di polizia che aveva occhi e orecchie ovunque, grazie alla quale sventai molti attentati alla vita del Primo Console poi divenuto Imperatore. Una cosa mai vista in Francia o in Europa, era il mio capolavoro. Fui gratificato del titolo di duca d’Otranto per questo e venni anche nominato governatore delle Province Illiriche (di cui Trieste faceva parte, ndr): qui tentai di diminuire la pressione fiscale, di liberare i prigionieri politici, e di ingraziarmi la nobiltà locale concedendo loro molto. Non so se ci sono riuscito. Ciononostante ebbi comunque contrasti con lo stesso Bonaparte, specialmente nel periodo dell’Impero: fui accusato persino di aver tentato assieme ad altri, tra cui Talleyrand, di sostituirlo al trono con Murat (re di Napoli e generale della cavalleria, ndr).

-Ed era vero? Avete veramente partecipato a questo tentativo?

Era palese per chiunque che le continue guerre dell’Imperatore non potessero garantire la durata e la salvezza dell’Impero, nonostante le vittorie: tosto o tardi qualcosa sarebbe successo. In quell’occasione sembrava che l’Imperatore fosse morto, poiché non stava dando più notizie di sé (si riferisce alla spedizione in Spagna del 1808, ndr): se non ci fossimo prodigati a tanto, era probabile che i realisti avessero potuto batterci sul tempo. Riuscii a farla franca, quella volta. Occorreva però continuare a tenere un piede a terra e uno sulla barca. Più tardi infatti, nel 1814, quando Bonaparte venne deposto, presi la reggenza di Francia per conto prima di suo figlio, poi del Conte di Artois, ma mi tenni lontano dal nuovo re Luigi XVIII nonostante i suoi inviti a prendere parte al nuovo governo. Il mio passato regicida pesava ancora, avevo troppi nemici e dovevo salvaguardarmi il più possibile.

-E con i Cento Giorni?

Il ritorno dell’Imperatore dal suo esilio fu una sorpresa: fu lui stesso a riconfermarmi al dicastero della polizia, cosa che accettai di buon grado. Non lo avessi mai fatto: dopo Waterloo costrinsi Bonaparte alla deposizione. Ormai ero troppo coinvolto per fare finta di niente e feci il possibile per avere ancora un nome nel regime che sarebbe venuto dopo. Non fu sufficiente: nel 1816 gli stessi deputati che obbligarono la deposizione di Bonaparte approvarono una legge che costringeva all’esilio tutti coloro che avevano votato la morte di Luigi XVI.

-Quindi è per questo che si trova lontano, a Trieste. Ma perché questa città?

Fu la sorella dell’Imperatore, Elisa, a offrirmi la possibilità di seguirla qui assieme al fratello Girolamo e alla sorella Carolina. Mi sono quindi stabilito dove siamo ora, a Palazzo Vicco, con moglie e figli. Trieste è una bella città e sono contento che i suoi abitanti abbiano accolto un loro vecchio governatore: d’altronde penso mi ricordino principalmente per questo. Qui l’aria e il sole sono unici: mi piace passeggiare nel verde boschetto qui vicino (Parco Farneto, ndr) e talvolta mi avventuro in solitarie escursioni sul Carso, o in mare su una gondola che ho fatto costruire per i figli miei e per quelli delle mie amiche. Più che un esilio, mi sembra di essere in pensione.

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