Quest’oggi Pausa Caffè vi porta al cinema per raccontarvi di uno dei film simbolo della Nouvelle Vague francese, Les quatre cents coups (I quattrocento colpi, François Truffaut, 1959). Proprio con questo film, proiettato per la prima volta al Festival di Cannes del 1959, si è soliti far iniziare il periodo della Nouvelle Vague.
Con questo termine si identificano i giovani registi francesi degli anni Sessanta che si radunarono attorno alla rivista “Cahiers du Cinèma”, fondata da André Bazin nel 1951 con Jacques Doniol-Valcroze. Di essi ricordiamo alcuni nomi: Jean-Luc Godard, Calude Chabrol, Jacques Rivette ed Eric Rohmer. Essi iniziarono prima di tutto una fervida e militante attività di critica cinematografica. Polemizzano innanzitutto contro il cinema francese commerciale di quegli anni, quello che Truffaut definiva il cinema dei «funzionari della macchina da presa». Successivamente, l’approdo naturale per tutti questi giovani francesi fu quello della regia.
I quattrocento colpi è infatti il primo lungometraggio di François Truffaut. Si tratta di un film in cui le vicende autobiografiche del regista, e i suoi ricordi d’infanzia, si mescolano alla finzione cinematografica. O meglio, per dirla con le parole dello stesso Truffaut «Nei quattrocento colpi non è tutto autobiografico, anche se è tutto vero. Che quelle avventure siano state vissute da me o da un altro non ha importanza, l’essenziale è che siano state vissute». Ecco allora che I quattrocento colpi non racconta solo le vicende personali di Antoine Doinel (Jean- Pierre Léaud), il ragazzino tredicenne protagonista del film, e non racconta solo le vicende dell’infanzia di Truffaut ma parla anche di noi, della nostra adolescenza, senza slanci retorici, in una dimensione che si connota come una demistificazione di questa età della vita.
I quattrocento colpi è una delicata poesia per immagini che racconta la solitudine di un adolescente qualunque, le cui gesta ribelli celano forse proprio la sua volontà di attirare l’attenzione degli adulti. Infatti, il mondo adulto sembra proprio non capirlo, a partire dal difficili rapporti familiari. A scuola le cose per Antoine vanno ancora peggio, gli unici momento felici sono quelli passati con l’amico Renè. I due ragazzi marinano spesso la scuola girovagando per le strade di Parigi, andando sulle giostre e al cinema. A seguito dell’ennesima delusione scolastica Antoine scappa di nuovo rifugiandosi a casa di Renè. Siccome i due ragazzini non hanno molti soldi decidono di organizzare il furto della macchina da scrivere del padre di Antoine, non riescono però a venderla e mentre Antoine la riporta in ufficio viene scoperto dal portinaio. Qui la situazione precipita vertiginosamente, i genitori decidono di denunciarlo e di mandarlo in un istituto correttivo per minori. Al riformatorio Antoine è ancora più solo, la madre viene a trovarlo solo per dirgli che lo rinnega come figlio e l’amico Renè non può entrare nel collegio a trovarlo. Così un giorno, durante una partita di pallone, approfitta di un buco nella recinzione e scappa, corre verso il mare, si bagna i piedi per poi tornare indietro, verso nella macchina da presa, nel celebre frame-stop che chiude il film : Antoine guarda lo spettatore con uno sguardo triste e al contempo interrogativo che non può che rimanere indelebile nel cuore di chi guarda il film.
Truffaut con questo film riesce a portare l’infanzia e l’adolescenza sullo schermo come pochi altri prima di lui erano riusciti a fare, con intimità documentaristica segue il piccolo Antoine attraverso le sue vicende, l’occhio della macchina da presa gli è sempre accanto.
Con la stessa modalità documentaristica Truffaut ci regala un’ultima significativa sequenza, quella conclusiva del film. Il giovane Antoine scappato dall’istituto attraverso un buco della recinzione inizia a correre, attraverso una lunga serie di carrelli laterali l’istanza narrante lo accompagna, forse è lo stesso Truffaut a stargli vicino come a ricordare che quella raccontata è anche la sua storia. Ma è anche la nostra, la storia di ogni adolescenza. Corriamo assieme ad Antoine, come se fossimo accanto a lui, fino ad arrivare al mare, quel mare che Antoine non aveva mai visto e che aveva sempre sognato. Ma ecco che, una volta arrivato al mare, Antoine si bagna appena i piedi ed indietreggia volgendo un ultimo sguardo alla cinepresa; il suo sguardo e l’intensissimo primo piano vengono fermati dal regista in uno stop-frame con il quale si che conclude il film, lasciando lo spettatore in un certo senso insoddisfatto. Rivolgendosi alla cinepresa forse Antoine si sta rivolgendo anche a chi si trova dietro la cinepresa, cioè a Truffaut, suggellando un’ ultima volta con lui quel legame tra narrazione e realtà, tra racconto cinematografico e autobiografia, tra Antoine/Jean-Pierre Léaud e il cineasta.
Ma forse, e soprattutto, quello sguardo fisso in camera si rivolge a noi spettatori per a ricordarci che quell’Antoine siamo anche noi.
Sono nata a Palmanova nel 1996, vivo a Trieste dove frequento il corso di laurea in Studi Umanistici.