Nessuno, tra i numerosi presenti venerdì sera all’Auditorium Don Bosco di Pordenone, si scompone per il quarto d’ora accademico che Gabriella Caramore, ospite della serata e già docente alla Sapienza di Roma, si concede sull’orario di inizio previsto per l’incontro.

E d’altra parte è la Pazienza il tema dell’appuntamento organizzato dall’associazione Aladura nell’ambito del ciclo di approfondimenti intitolato Percorsi, e Pazienza è anche il nome del libro che Gabriella Caramore ha scritto per il Mulino.

Autrice e conduttrice radiofonica, scrittrice, filosofa: Caramore non può che iniziare la sua trattazione con una premessa generale e un generico richiamo all’importanza del linguaggio e delle parole.

Fin qui, nulla di sensazionale o che non si possa già trovare nelle fortunatissime sequenze della Palombella Rossa di Nanni Moretti.

Sviluppando questo filone però, la studiosa pone le basi interpretative per il seguito del suo intervento; le parole, spiega, sono il tessuto stesso della persona umana e delle relazioni.
“Le parole sono corpi vivi”, e come tali hanno un loro ciclio biologico: nascono, crescono, mutano, talvolta muoiono.

Studiare la storia di una parola significa in questo senso ripercorrere le vicende umane che la interessano; ricostruirne l’evoluzione pare così essere lo stesso che parlare di noi.

Così evidentemente è anche per pazienza, parola almeno in apparenza fuori moda, molto lontana dai tempi frenetici che viviamo, e che ci sembra oggi inestricabilmente connessa ad un’idea di sopportazione, accettazione passiva, finanche sottomissione.

Caramore ci mette in guardia rispetto alla tentazione di declinare in questo modo un concetto che, come cercherà di dimostrare nello svolgersi della discussione e per mezzo di continui excursus storici, religiosi e letterari, contiene al suo interno potenzialità proattive, positive, passionali.

Fin dall’antica grecia, i termini che traducono pazienza sono accomunati da un’accezione di patimento come attesa, sempre finalizzata a qualcosa di altro e mai rinunciataria o sottomessa.

È pazienza quella dell’oplita prima dello scontro con il nemico, lo è l’astuzia di Ulisse allorquando trattiene il desiderio di vendicare la morte dei compagni ed amici per mano di Polifemo, in attesa del momento propizio per una vittoria totale.

È patire quello del Cristo in croce, giunto attraverso i secoli fino a noi portando con sè una vena di dolorismo e vittismo che grandemente ha contribuito al nostro odierno modo di intendere la pazienza.

Ma è anch’esso un patire, a detta di Gabriella Caramore, riconducibile ad una attesa teleologicamente orientata; è una pazienza ricolma di forza e passione e amore: la medesima che il fedele dovrebbe sviluppare dinnanzi alla messa a morte di un giusto.

Guidata con dovizia dalle domande di Stefano Bortolus, l’autrice analizza alcune importanti figure di pazienza: quella di Mosè, che abbraccia quelle di tutti coloro che nella vita sono sempre stati pazienti nel prendersi cura degli altri, senza trovare nessuna ricompensa terrena; quella di Giobbe, personaggio dalla pazienza tenace nel chiedere a Dio il motivo delle sofferenze dei giusti; fino a quelle più moderne tra le quali spicca la figura di Dietrich Bonhoeffer, teologo e pastore luterano impiccato dai nazisti perchè coinvolto in un attentato al Fuehrer.

Il lascito finale di questo incontro pare essere un’esortazione a che la frenesia e la passività del nostro quotidiano non siano condizionati da un modo di intendere la pazienza che oramai identifichiamo come connaturato alla parola stessa; parola che invece meriterebbe di mutare nuovamente e riacquistare, di pari passo e in conseguenza del nostro agire temporale, la sostanza concettuale originaria che gli è propria.

Ecco che questa ritrovata concezione di pazienza come attesa finalizzata a qualcosa di migliore e più alto è perfetta per instradare questi Percorsi, in un processo che continuerà venerdì 30 Ottobre con Piero Boitani (Riconoscere), ma che solo alla fine ci ricompenserà, forse, diradando le nebbie di un punto d’arrivo.

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