Parlando di foibe spesso ci si chiede come erano fatte, come venivano lanciati qui a morire i prigionieri, quale fosse la prassi, quali i motivi e quanti i morti.
Cercheremo ora di far luce su uno degli eccidi più crudeli della storia contemporanea, con l’aiuto ulteriore di una testimonianza di uno dei pochi sopravvissuti.
Innanzitutto, le foibe sono delle increspature rocciose profonde diversi metri. La loro funzione era quella di “nascondere” alcuni cadaveri e di rilievo furono gli occultamenti avvenuti durante la Grande Guerra, in sostituzione alle fosse comuni. I corpi, durante la caduta, subivano diversi danni e mutilazioni: giungeva al suolo soltanto una magra carcassa di quello che poco prima era stato un uomo (o una donna). Raramente si poteva sopravvivere a questi precipizi e in caso ci si trovava a morire di stenti sulle carcasse di altri uomini. Parlando di foibe spesso ci si chiede che cosa davvero accadde a quegli uomini, se erano o meno vivi, a quale nazionalità fossero appartenuti in vita, quanti erano, se ci furono o meno dei sopravvissuti.
In seguito all’Armistizio tra Italia e Alleati, siglato l’8 settembre 1943, e poi tra il primo maggio e il 12 giugno 1945 si recuperarono le foibe con lo scopo di gettarvi i corpi ancora vivi di alcuni prigionieri, sia da parte degli italiani che della Jugoslavia. Questi baratri svolgevano tre scopi distinti: vendetta nei confronti dei nemici personali; dominazione della popolazione italiana delle coste dalmate; uccisione degli oppositori politici e cittadini italiani opposti alla dittatura di Tito. Talvolta, le foibe vennero adoperate anche con lo scopo di seppellire semplicemente i cadaveri degli scontri tra i combattenti oppure dei morti nei bombardamenti.
Il numero di vittime di questa uccisione di massa non fu mai accertato però, poiché il governo jugoslavo non ha mai accettato di partecipare a inchieste per determinare il numero dei decessi effettivi. In secondo luogo, il disinteresse del computo delle vittime fu per molti anni anche italiano, a causa delle controversie politiche che la questione poteva originare. Inoltre, vi era una effettiva difficoltà tecnica e logistica nel recuperare i cadaveri da queste cavità naturali notevolmente profonde e molte volte la stessa imboccatura di un singolo crepaccio veniva demolito con l’uso di esplosivi.
Risulta anche poco chiaro stabilire la data dell’ultimo infoibamento per la mancanza di documenti che forse non erano nemmeno stati emanati dalle autorità jugoslave.
Le prime segnalazioni dell’uso di questi crepacci naturali contro la popolazione italiana – e jugoslava poi – furono svolte dalla Wehrmacht nel 1943, dopo la ripresa del controllo del territorio istriano da parte della Germania nazista e la successiva incorporazione nel Terzo Reich.
Nel 2000, una commissione storica italo-slovena esaminò i rapporti tra i due Paesi tra il 1880 e il 1956, con l’appoggio dei rispettivi ministeri degli esteri. Il rapporto non approfondiva tuttavia l’argomento, finché lo storico Raoul Pupo riuscì a stimare il numero dei morti attorno ai 5.000. Per il tenente inglese De Gaston, capo del Patriots Office, i soli infoibati furono circa 9.800 di cui oltre 4.000 civili, donne e bambini compresi.
Il Centro studi adriatici, diretto da Luigi Papo, nel 1989 arrivò ad individuare un numero ancora più preciso: 10.137 vittime. Tra queste, 994 furono infoibate; 326 accertate ma non recuperate nelle cavità carsiche; 5.643 presunte sulla base di segnalazioni locali; 3.174 morte nei campi di concentramento jugoslavi. Comprendendo invece anche i morti nei campi di concentramento e i fucilati, che furono poi occultati nei crepacci, il numero delle vittime sale a 17.000.
Non si deve dimenticare che nelle foibe furono gettati anche ustascia, cetnici, soldati tedeschi, criminali semplici e chiunque fosse sospettato di osteggiare gli jugoslavi comunisti e titoisti.
Tutte le vittime di qualsiasi etnia sono da ricordare e commemorare il 10 febbraio, giornata dedicata al Ricordo. Alcuni personaggi sono rimasti impressi nella memoria dell’opinione pubblica proprio per il loro eroismo o per la brutalità con la quale furono trucidati: Norma Cossetto, don Francesco Bonifacio, le tre sorelle Radecchi o Radeki di famiglia croata.
Delle osservazioni a sé le merita l’esodo istriano o giuliano-dalmata, che la storiografia ricorda come quel notevole fenomeno di diaspora che si verificò al termine della Seconda Guerra mondiale da Istria, Quarnaro e Dalmazia da parte della maggioranza dei cittadini di lingua italiana e di coloro che diffidavano del nuovo governo jugoslavo, in seguito all’occupazione di queste regioni da parte dell’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia del Maresciallo Josip Broz Tito e alla conseguente assegnazione di questi territori alla nuova Federazione Jugoslava. L’interesse di Tito a epurare la zona dai dissidenti si faceva sempre più feroce, intraprendendo anche la via del terrore con l’uso delle foibe per l’uccisione dei nemici politici.
Il punto di rottura tra Tito e i suoi stessi compatrioti c’era nel momento in cui anche le libertà politiche degli slavi furono cancellate da una dittatura forte e violenta. Per questo motivo le foibe interessano anche sloveni, croati e slavi in generale.
I “nemici del popolo”, per Tito, andavano eliminati e non era importante riconoscerne l’appartenenza nazionale. Sull’equivalenza tra “italiano=nazista”, i partigiani comunisti di Tito, con l’appoggio di delatori slavi locali e dell’OZNA, la polizia segreta jugoslava, compirono rastrellamenti e prelevarono istriani inermi di notte, per poi rinchiuderli nel castello di Pisino o in caserme e scuole abbandonate dove li sottoponevano a interrogatori e torture.
I polsi dei condannati venivano stretti con le pinze del filo di ferro, poi i prigionieri erano incolonnati e condotti sull’orlo di una foiba. Le donne spesso erano anche vittime di violenze carnali, gli uomini subivano evirazioni per poi essere fucilati nudi fatti precipitare poi nel baratro. Spesso i condannati erano legati tra di loro: in questo modo, caduto il primo, precipitavano tutti. Talvolta si legavano assieme due persone, schiena a schiena, si sparava solo a una delle due, in modo tale che il vivo precipitasse assieme al morto e giacesse vicino al cadavere dell’altro, perché non sempre si moriva durante la caduta.
Perché morirono anche uomini di origine slava? Il motivo era semplice: chiunque avesse avuto a che fare con degli italiani era considerato nientemeno che un nemico da punire. L’epurazione prevedeva quindi chiunque avesse affiliazioni con gli italiani e poco importava se questi ultimi fossero appartenuti o meno alla cerchia dei fascisti.
Da una testimonianza si leggono le atrocità sopra elencate ed è facile intuire il terrore che dilagava nella penisola d’Istria.
Giovanni Radeticchio di Sisano.
“… addi 2 maggio 1945, Giulio Premate accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con un camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe Frezza nonché Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo littorio dove ci aspettava una mostruosa accoglienza[…] Chiamati dalla prigionia al comando, venivano picchiati da ragazzi armati di pezzi di legno. Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo trenta ore di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non condita. Anche questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col filo di ferro ai polsi due a due, così stretti da farci gonfiare le mani ed urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio. Ad un certo momento della notte vennero a prelevarci uno ad uno per portarci nella camera della torture. Era l’ultimo ad essere martoriato: udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le urla di strazio di questi ultimi. Venne il mio turno: mi spogliarono, rinforzarono la legatura ai polsi e poi, giù botte da orbi. Cinque manigoldi contro di me, inerme e legato, fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un secondo mi picchiava col filo di ferro attorcigliato, un terzo con un pezzo di legno, un quarto con pugni, la femmina mi picchiava con una cinghia di cuoio. Prima dell’alba mi legarono con le mani dietro la schiena ed in fila indiana […] Arrivati al posto del supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono le calze (le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima), il fazzoletto da naso e la cinghia dei pantaloni. Mi appesero un grosso sasso, del peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Udovisi, già sceso nella foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell’acqua della foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l’ultima vittima, gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più. Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella foiba per un paio di ore. Poi, col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba…”
Come i gulag, i campi di concentramento, le foibe erano un luogo di terrore. Si era espropriati dell’identità con cui vi si entrava, la morte la si poteva toccare, la speranza di uscire vivi era per lo più inesistente.
Tante sono state le atrocità compiute tra le due guerre, ma il dubbio del computo delle vittime, della loro provenienza effettiva e la mancanza di vere e proprie indagini gravano ancora su questo incubo vissuto nel Carso.