Esistono alcune attività che si potrebbero, a ragione, contare tra quelle che meglio assecondano il necessario ottimismo dell’animo umano: il governo di un Paese, l’astrologia, l’animazione dei villaggi-vacanza. La lettura di romanzi. E in effetti, chi scrive vive nella profonda convinzione che, nel cuore della foresta colombiana, una volta sia esistito un villaggio chiamato Macondo; che il XVIII secolo sia stato testimone di un barone che decise di vivere sugli alberi; che da qualche parte a Cuba, viva un vecchio e sfortunato pescatore amante del baseball; che nella foresta ecuadoriana, sulle rive di un fiume ignoto, un altro vecchio viva nel ricordo di due amori.

Antonio José Bolìvar Proaño conserva quella saggezza che solo i vecchi con una storia alle spalle conoscono, e sa che la solitudine può essere la più gelosa delle compagne, ma che per lui sarà anche l’ultima: la malaria e un compagno mal vendicato lo hanno privato della sua sposa e dei suoi shuar della foresta. Questo Vecchio è uno di quei personaggi, tipici dei racconti di Sepulveda, che resistono alle bugie degli uomini e dei loro governi con un mezzo tanto efficace quanto la lotta: ovvero il rifiuto alla partecipazione, l’ostinata ricerca della solitudine.

In effetti, è proprio una promessa di solitudine, oltre che un certo senso di investitura a redentore di una natura vendicativa come il Dio del Vecchio Testamento, a dare inizio alla caccia della femmina di tigrillo che, impazzita dal dolore per la perdita dei suoi cuccioli, vaga sulle tracce dell’Uomo. Ma il Vecchio è un uomo accorto delle cose della foresta, e quella che si sviluppa è una mutua ricerca tra due creature che parlano una stessa lingua ancestrale le cui sillabe si nascondono in un ramo spezzato, un’odore o un’ombra.

Aveva sentito dire spesso che con gli anni arrivava la saggezza, e l’aveva aspettata, fiducioso, che questa saggezza gli disse quello che più desiderava: la capacità di guidare la direzione dei ricordi per non cadere nella trappola che questi spesso gli tendevano.

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