E’ la notte del 23 agosto 1318 quando, di colpo, veniamo svegliati dal forte tumulto che proviene dal vicolo sottostante. Le grida sono tutte confuse e non si capisce bene cosa vogliano dire. Sembrano più lamenti di sofferenza e richieste d’aiuto che di protesta o altro. Ci alziamo e andiamo alla finestrella: un grande bagliore, quasi fosse giorno, illumina un cielo coperto da fitte nubi basse, così basse che entrano persino nella soffitta dove siamo alloggiati. Il fatto che sia nebbia pare strano: è piena estate e fuori non fa minimamente freddo, pertanto lo escludiamo subito. L’odore che si sente però, unito a quanto abbiamo sotto gli occhi, non dà spazio a interpretazioni: è un incendio.

A bruciare sembra che sia la parte a Nord-Ovest della città, tant’è che guardando in quella direzione riusciamo a scorgere le fiamme. Restare in una soffitta di legno, seppur lontana dal fuoco, non pare una buona idea. Riprese le nostre cose, velocemente scendiamo. Al pianterreno la locanda è deserta, l’oste doveva essersela filata da poco con il vino e con le poche scorte. Una volta usciti, ci ritroviamo in una situazione di difficile mobilità: tra calli larghe poco più di un metro e la folla che si accalca per trovare riparo, dobbiamo solo seguire la corrente che in quel momento va verso San Marco.

Sbuchiamo quindi in Contrada Maggiore. Sarà la grande folla, ma ci sembra che la larghezza della via si sia ridotta. Più che un’impressione è la realtà: al nostro arrivo non ci avevamo fatto caso ma quella strada che collega la Loggia alla Porta della Bòssina non è più ampia di quattro metri, cinque nei pressi della Loggia. La si potrebbe confondere per una delle tante vie che oggi sono secondarie al Corso. Come per l’antichità, anche nel Medioevo le città avevano case popolari ammassate vicine alle altre e Pordenone non faceva eccezione.

In poco tempo le fiamme si sono estese fino a raggiungere metà del borgo: la vicinanza di case in legno, con molto di infiammabile al loro interno, facilita non di poco il lavoro distruttivo del fuoco. Riusciamo per un momento a separarci dalla folla. Siamo nei pressi della Loggia. Tramite un’impalcatura lì presente possiamo salire per farci un’idea della situazione: all’orizzonte fiamme alte decine di metri inghiottono con la loro luminosità interi edifici, che crollano l’uno sull’altro. Il cielo da plumbeo è diventato rosso sanguigno mentre sotto di noi, tra la folla che si accalca per uscire dalla città notiamo diversi feriti e ustionati gravi. Probabilmente in molti non hanno superato o non supereranno quella notte.

A questo punto scendiamo e, ripreso il flusso della folla che ormai defluisce sempre più, ci dirigiamo verso il bastione d’ingresso, la Porta Friulana. Mentre gli abitanti attraversano il ponte per riversarsi al di là del fiume, noi ci accostiamo immediatamente sotto le mura, incuriositi da un particolare atto di disperato coraggio: alcuni uomini stanno caricando acqua nei secchi e nei barili per poter quantomeno contenere l’incendio; nel salvare il salvabile, non vogliono che le fiamme raggiungano il cantiere del campanile, della basilica e della Loggia.

Il servizio dei pompieri, già noto in epoca romana, per come lo intendiamo noi è quasi del tutto inesistente nell’Italia e nell’Europa medievale: si ha qualche riferimento nella Firenze dell’epoca delle Guardie del Fuoco e siamo a conoscenza che nel 1254 il re di Francia Luigi IX avesse istituito dei servizi di pattuglia, i Guet e i Guet-royale. Per il resto, basti pensare che, come per gli appalti, le organizzazioni civiche, tra cui appunto i pompieri, venivano organizzate da nobili locali, così in contrasto tra loro che spesso non se ne faceva niente. Figuriamoci quindi a Pordenone.

Senza esitare diamo una mano anche noi. Preso un secchio dalla vicina roggia, rientriamo più velocemente possibile in città. Salito il pendio del complesso di San Marco, si apre davanti a noi un‘immagine decisamente più infernale di prima: l’aria è quasi irrespirabile e il calore è insopportabile; la distruzione del fuoco è avanzata così tanto che le fiamme distano solo poche decine di metri dai cantieri. Molte case, ridotte a tizzoni ardenti, crollano su sé stesse; per le strade, per fortuna, non sembra esserci più anima viva.

E’ dura ma cerchiamo di dare il maggior contributo possibile. A noi si uniscono altre persone: tra loro riconosciamo il contadino del campo fuori città, il giovane a cui avevamo chiesto informazioni circa il Castello e lo stesso oste della locanda. In breve tempo sopraggiunge il corpo di difesa del capitano austriaco, di cui fanno parte le guardie agli ingressi del borgo. Insomma, tutti, dai cittadini a quelli che vivono fuori dal borgo, alle autorità, stanno dando un contributo deciso per salvare la città dalla distruzione totale.

La spiegazione è semplice: tutti si conoscono tra loro e quindi non hanno difficoltà ad aiutarsi l’un l’altro. Il senso civico medievale contraddistingue l’epoca: nonostante la cura dell’insediamento ricordi il Terzo Mondo, uno non si sentiva orgoglioso dello Stato a cui apparteneva o del sovrano o governo che lo reggeva, bensì della città in cui viveva. Una sorta di patriottismo, a volte nazionalismo quando a essere in ballo era l’onore della città verso una rivale, ridotto alle dimensioni del borgo e condiviso da tutti i suoi abitanti.

Sta sorgendo l’alba e l’incendio sembra essersi arrestato, tuttavia non per merito nostro: ciò che c’era di combustibile era stato bruciato e il fuoco non aveva trovato più alimento. Le fiamme hanno danneggiato le strutture dei cantieri, parte della Loggia è ormai irrecuperabile. Per il resto è terra bruciata: solo pochi altri edifici si sono salvati; le case che prima occupavano la visuale sono sparite in un mucchio di cenere, al punto che dal cantiere di San Marco si vede la porta della Bòssina senza interruzioni di visuale. Il Castello però è ancora lì.

E’ una catastrofe resa ancor più drammatica dal calcolo delle vittime e da ciò che gli abitanti hanno perso in tema di proprietà. Ma da questo sfacelo i pordenonesi sapranno riprendersi: siamo infatti a conoscenza che in seguito verrà predisposto un nuovo piano urbanistico, con l’allargamento della Contrada Maggiore e delle vie tra le case, e soprattutto, e qui la novità decisiva, viene imposto l’obbligo di costruire gli edifici in pietra e mattoni.

Pordenone, a partire dal catastrofico incendio del 23 agosto 1318, rinascerà completamente e si avvicinerà sempre più a essere quella che conosciamo oggi.

Lascia un commento