La cronaca locale recente ci fornisce l’occasione per porci un quesito, giuridico e sociale, con cui ci troveremo in futuro sempre più a fare i conti: esiste – o dovrebbe esistere – un “diritto ad internet“? Quale dovrebbe essere, inoltre, il suo contenuto?

Questa domanda potrebbe risultare stucchevole a molti, in tempi in cui altri e ben più consolidati diritti sembrano passare momenti critici.

E tuttavia, la questione non è così fuori dal mondo, se si guarda all’evoluzione storica e al configurarsi di molti tra i diritti che diamo ormai per scontati nella nostra concezione occidentale ed europea di Stato sociale.

L’idea di Stato di epoca liberale era imperniata su un concetto di diritti intesi come negativi.

I diritti soggettivi di questa generazione sono diritti civili, politici, di libertà e protezione dallo Stato.

Il diritto alla riservatezza, alla libertà di espressione e a quella di aggregazione, il diritto alla libertà personale: tutti presentano appunto un’impalcatura negativa dell’esercizio arbitrario del potere statuale.

Al contrario, i diritti “di seconda generazione” sviluppatisi in prevalenza dopo il secondo conflitto mondiale sono perlopiù diritti sociali ed economici.

Questi diritti si dicono positivi, perché si strutturano come diritti ad avere una prestazione sociale: non sono dunque più collegati ad un momento di astensione da parte dello Stato, bensì ad una sua dimensione interventista.

In questo novero rientrano tipicamente i diritti alle prestazioni sociali e sanitarie o il diritto all’istruzione.
É’ evidente come siffatti diritti siano più difficili da garantire, in quanto la loro concreta attuazione – consistendo in un fare – è legata a variabili politiche e, soprattutto, economiche e di bilancio.

Come detto, tali ultimi diritti erano fino al secolo scorso tutt’altro che scontati.

In questo solco potrebbe forse ben inserirsi in un futuro prossimo anche un diritto ad internet, almeno inteso nel suo contenuto minimo di diritto all’accesso ad internet.

Tale ipotesi muove dalla premessa che, nella società in cui viviamo, la possibilità di utilizzare la rete internet non sia solamente un nuovo bene sociale da proteggere in quanto tale.

Essa sarebbe, soprattutto, una delle nuove modalità e dei nuovi canali di esercizio di diritti e libertà tradizionali – di espressione, di critica, di associazione, di iniziativa economica.

Conseguentemente si configura la necessità di garantire il rispetto di libertà e diritti tradizionali nella loro dimensione online, in applicazione di una nozione di cittadinanza digitale che si affianchi a quella tradizionale, senza dover per questo essere intesa come un diritto diverso ed ulteriore.

A questo proposito, non mancano esempi a livello internazionale di leggi ed altri strumenti con maggiore o minore valore normativo.

Anche l’ONU, in un suo rapporto del 2011 ha evidenziato come « internet è diventato un mezzo indispensabile per la realizzazione di tutta una serie di diritti umani » e pertanto « l’accesso universale a Internet dovrebbe essere una priorità per tutti gli stati ».

Questioni di tecnica normativa a parte, proprio in Italia registriamo una delle esperienze pionieristiche più interessanti in materia, ossia l’approvazione di una Dichiarazione dei diritti di Internet.

Tale Dichiarazione, sebbene sia uno strumento di soft law senza valore normativo vincolante, costituisce un significativo punto di emersione del dibattito portato avanti a livello internazionale su questi temi.

La Dichiarazione, che consta di un Preambolo e di 14 articoli, enuncia principi giuridici già conosciuti, dandone però una visione unitaria ed innalzandoli al rango di principi ordinatori della Rete.

Tra gli altri, ritroviamo nel testo il principio di accesso ai dati, il principio di autodeterminazione informativa, il diritto all’anonimato ed all’oblio, il principio di neutralità della rete.

Quest’ultimo in particolare, come formulato all’articolo 4 della Dichiarazione, prevede che:

«Ogni persona ha il diritto che i dati trasmessi e ricevuti in Internet non subiscano discriminazioni, restrizioni o interferenze in relazione al mittente, ricevente, tipo o contenuto dei dati, dispositivo utilizzato, applicazioni o, in generale, legittime scelte delle persone.

Il diritto ad un accesso neutrale ad Internet nella sua interezza è condizione necessaria per l’effettività dei diritti fondamentali della persona».

Tale principio, che sembra riguardare l’accesso alla rete nella sua dimensione qualitativa, implicitamente presuppone e si ricollega al diritto di accesso alla rete tout court, come inteso all’inizio di questo articolo, ossia nella sua accezione di possibilità per ogni cittadino di accedere all’infrastruttura di internet.

Come abbiamo visto, i diritti di nuova generazione devono la loro effettività in gran parte alla possibilità dello Stato di investire ed impiegare risorse economiche nella loro promozione.

Il diritto di accesso ad internet, almeno inteso come da ultimo, non fa eccezione.

É un diritto costoso, certo, come sono costosi in termini economici ed aziendali tutti gli altri diritti assicurati all’utente in rete, a partire da quelli che garantiscono la privacy.

La domanda che ci si deve porre è quindi questa: in un mondo in cui le tecnologie informatiche cambiano di giorno in giorno la nostra esistenza ed il nostro modo di vivere, quanto valore siamo disposti a dare a questi diritti?

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