Sul tavolo, nella sala dell’incontro con l’autore, c’è una bottiglia. Vino rosso.
Siamo lo scorso venerdì e siamo a Tolmezzo, seduti.
La sala si riempie tutta all’ultimo. Mi stavo chiedendo com’era possibile che non accorressero tutti, quando si parla d’amore. Meglio, quando si parla d’amore come lo fa Guido Catalano, ovvero declinandolo tragicomicamente e facendosi aiutare da un grillo parlante con le sembianze Tonio Cartonio. L’autore viene a raccontarci il suo primo romanzo, D’amore si muore ma io no, edito da Rizzoli, che arriva dopo la pubblicazione di sei libri di poesie. Non ha campato solo coi versi: ospite fisso di Caterpillar su Radio 2, tiene un blog per Il Fatto Quotidiano e cura la posta del cuore sulla rivista Linus.

Abbiamo molte cose in comune, il poeta professionista vivente di Torino ed io:
Siamo ipocondriaci.
Arriviamo sempre in anticipo (siamo degli Anticipatori Professionisti), ma siamo sempre in ritardo rispetto al resto del mondo.
Siamo effetti da ipobaciosi cronica (su cui non mi dilungo e rimando al libro).
Vorrei poter dire che entrambi non abbiamo uno smartphone, ma io da un anno ce l’ho. Ce l’ho per amore, in effetti. Un amore tragicomico.

“Si muore, per amore?” Questa è una delle domande che ci si fa all’interno del libro, che vede nella prima metà un poeta semi-professionista vivente rintracciare nella sua città una ragazza, precisamente un’aracnologa, di cui la prima cosa che ha visto è stato il sedere, mentre salivano la scala d’imbarco sull’aereo Torino-Palermo. Giacomo è un alter ego dell’autore che non sa guidare, ama i gatti e tutt’a un tratto cambia radicalmente la spesa, nel suo supermercato di fiducia, per vedere se la cassiera troppo magra coi capelli corti se ne accorge.

Guido Catalano, a Tolmezzo per il Maggio Letterario, alterna racconti a letture ― readings, com’è solito fare girando per l’Italia e leggendo in pubblico le sue poesie. Alla domanda “a chi ti ispiri”, ci dice che per lui i Peanuts sono poesia allo stato brado. Poi cita Bukowsi, Prévert, Woody Allen, Battisti e Mogol.  Ci racconta che è laureato in lettere, ma avrebbe dovuto fare l’avvocato come suo padre: “dopo un anno di legge sono fuggito. Urlando.
Spesso gli criticano la perseveranza nello scrivere d’amore e basta: “io scrivo molto d’amore per cercare di capirlo. Da adolescente ero rimbambito e ho continuato ad esserlo in campo amoroso, così ho iniziato a scrivere per venirne a capo.”
Poi, ci legge. Legge con la sua faccia seria, il suo tono cadenzato e la sua fenomenale r moscia.

«E poi intanto che le racconto penso che se non la bacio qui, tra le casette rosse, in un limpido giorno di novembre, se non la bacio sono un imbecille […] e Agata non sta con le braccia conserte, che ho letto nel manuale del perfetto seduttore che le braccia conserte sono cazzi, e in più si è toccata diverse volte i capelli che quello invece è un buon segno.
E c’è un momento che l’aggancio di occhi è perfetto, è il momento chiarissimo in cui scende il silenzio […] e io sento ―giuro― distintamente una voce. Ed è la voce di Tonio Cartonio.
‘Coglione, baciala adesso!’»

La risposta è che per amore non si muore. Ci si fa un gran male, ma non si muore. O se si muore si resuscita, più incazzati che mai. Mogol dice «ho visto un uomo morire per amore». Morire, sottolinea GC. “Vuol dire che non ha visto il cadavere. O se l’ha visto, non ce lo dice. Perché non ce lo dice? Cazzi di Mogol.”

La vena poetica, in ogni caso, risalta anche sotto la trama narrativa che il romanzo impone:

«Le sopracciglia sono la cornice degli occhi.
E siccome gli occhi sono lo specchio dell’anima, credo di potere affermare senza tema di smentita che le sopracciglia siano la cornice dell’anima.
Trovo folle l’uso di sfoltirle fino a quasi annullarle.
Annullare la cornice dell’anima è rischioso.
Un’anima senza la sua cornice è un’anima debole.»

Lascia un commento