Quando ci si avventura per le strade di Trieste e si comincia, poco a poco, a scoprirne la cultura, si rimane sempre meravigliati dai tratti tipici e dalle peculiarità che offre il capoluogo giuliano. Girando per la città e scambiando due parole con i passanti, non si può fare a meno di notare che in alcuni di loro c’è qualcosa di insolito, oserei dire esotico: molte vie, piazze, palazzi ed alcuni cognomi hanno radici “illiriche”. Questa è la testimonianza di come una comunità, seppur piccola e povera all’inizio, possa con il tempo divenire influente e piantare radici salde e profonde. Questa è la storia degli sloveni a Trieste.
Le prime notizie sono scarse, ma quello che si sa per certo è che i primi insediamenti sloveni sorsero nei pressi della città intorno agli ultimi secoli del primo millennio. Molti erano attirati dall’attività commerciale fiorente e dalla speranza di trovare miglior fortuna in quella terra promettente. Insieme ai friulani, gli sloveni rappresentavano il maggior afflusso d’immigrati. Si stabilirono nella parte suburbana della città, e fin da subito s’impegnarono in quell’attività che ben presto sarebbe diventata uno dei pilastri portanti dell’economia cittadina: la produzione vinicola.
Con il tempo si dimostrarono abili nel commercio, nella coltivazione della terra e in buona parte dei lavori manuali, tanto che, si può dire con sicurezza, la maggior parte degli artigiani era di origine slovena. Presto la loro lingua divenne preferenziale per alcune arti e mestieri, ma non solo: la nobiltà triestina si vide costretta a ricorrere allo sloveno per comunicare con i propri braccianti, visto che la maggior parte dei loro possedimenti era affidata a contadini sloveni.
I protagonisti dei primi spostamenti in città furono i figli dei contadini che, stanchi di coltivare la terra per qualcun altro, decisero di cercare fortuna, cogliendo le varie occasioni che Trieste poteva offrire. Però buona parte degli sloveni che si avventurarono in città era destinata a far parte della zona più bassa della scala sociale; pochi riuscivano a emergere: osti, fabbri, locandieri, servi e contadini, chi non era impegnato nei lavori più umili, finiva ad ingrossare le fila dei poveri e degli indigenti.
L’istituzione del porto franco nel 1719 rappresentò un momento chiave per la storia triestina, trasformando la città in un emporio tra i più importanti e attivi d’Europa. Questo evento importantissimo si fece sentire anche nell’entroterra; i mercanti sloveni, che già frequentavano Trieste per i loro commerci, decisero di stabilire lì la propria attività, e la loro residenza fissa, in modo da godere dei vari vantaggi fiscali. In molti spostarono la propria attività da Lubiana a Trieste: non solo commercianti, ma anche persone umili che volevano vivere quel “sogno triestino”, aumentando le proprie fortune e creandosi una posizione sociale.
Trieste in quel periodo diventò lo scenario per spettacolari scalate sociali: la città visse un momento florido e prospero, e molti furono i giovani, dalle umili origini slovene, che si avventurano nell’intricato mondo degli affari, sgomitando e facendosi largo tra le numerose insidie che nascondeva quell’ambiente truffaldino e spietato. E qualcuno riuscì pure ad arricchirsi.
Già a metà dell’Ottocento si era creato un ceto medio sloveno, e una borghesia potente e rispettata. Mancando il fattore di distinzione di tipo religioso, maggiori erano le possibilità di integrazione nel nuovo universo cittadino per divenirne parte integrante; ma anche i matrimoni tra sloveni e triestini accelerarono quel processo di unione tra etnie diverse.
L’integrazione però non fu così rapida. La presenza di un élite slovena, creò una società parallela: il ceto medio sloveno si andò delineando come una classe sociale fornita di un gruppo politico e culturale comune. I componenti più ricchi assunsero un ruolo di guida, e vennero riconosciuti come tali. Furono aperti circoli e associazioni culturali per tutti coloro che avevano origine slava: il legame con la patria e la cultura della terra natia non era mai venuto meno. La crescente influenza della borghesia slava colse di sorpresa l’alta società, italiana e tedesca, che fino a qual momento aveva dominato incontrastata la politica cittadina.
Nel 1848 fu costituito il Consesso slavo di Trieste, con sede al Tergesteo, che rappresentò un punto d’incontro per le persone schierate e animate da spirito patriottico slavo. Venne aperta pure una sala di lettura, promotrice del risveglio nazionale degli sloveni e degli slavi di Trieste. Tutte queste iniziative, appoggiate dalla classe slovena più abbiente, miravano a promuovere un attività culturale e nazionale, in modo da avere anche una visibilità politica.
Il principale scontro tra la minoranza slovena e la rappresentanza italiana, si consumò proprio in questo periodo, quando gli italiani si opposero fermamente all’apertura di scuole slovene in centro città: ultimi tentativi di arginare una sempre più crescente influenza politico- economica della componente slava della città.
Nel 1874 venne fondata Edinost, che era la prima rappresentanza politica degli sloveni, e sancì definitivamente l’ascesa dell’associazionismo slavo, che rafforzò, senza dubbio, la componente urbana e borghese, dando seguito a quella saldatura forte tra la dirigenza politica e gli imprenditori.
L’apice venne raggiunto con la creazione di due istituti: la Jadranska banka (Banca Adriatica) che divenne in breve tempo una delle banche più importanti della città tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, e la Narodni dom, la casa nazionale, costruita nel 1903. Situata in un palazzo che, all’epoca, si affacciava su Piazza Oberdan, la Narodi dom fu concepita per essere il centro della vita culturale slovena: comprendeva al suo interno un teatro, un caffè, una sala lettura e un piccolo albergo. Era un edificio splendido, polifunzionale, che divenne presto il simbolo degli sloveni a Trieste: un popolo che, con il tempo e il duro lavoro, era riuscito a ritagliarsi un ruolo da protagonista nella storia della città.