Daisuke Ito è stato uno dei più grandi registi del Sol Levante. Il suo stile, lo jidaigeki o dramma storico è lo stile che ha ispirato Akira Kurosawa per la realizzazione di film poi considerati capolavori come I Sette SamuraiRashomon o il controverso Ran. Da qui si capisce la grande importanza che ha avuto non solo all’interno del cinema muto giapponese, di cui è considerato il maggior esponente, ma in realtà all’interno dell’intera cultura del paese. Le sue storie, storie di grandi personaggi, di passione e onore precorrono infatti le grandi opere del cosiddetto samurai cinema, genere che si mescola con il jidaigeki e che simboleggia buona parte del cinema orientale.

Chuji Tabi Nikki, o A Diary of Chuji’s Travels (1927) è considerato la massima espressione cinematografica del genio di Daisuke Ito ed è considerato uno dei migliori film giapponesi di sempre. La sua storia è una vera e propria odissea: inizialmente studiato per essere diviso in tre atti (ben 6540 metri di pellicola), il film è andato poi perdendosi fino al 1991, quando vennero riscoperti nuovi frammenti che permisero di ricostruire meglio la trama; per avere un’ulteriore completezza si ebbe bisogno di aspettare altri venti anni, fino al 2011, quando furono aggiustati altri “buchi” all’interno della pellicola e si operò un massiccio restauro ad essa.

Rimane tuttavia il rimpianto per un film che era considerato prima della sua frammentazione una delle maggiori colonne portanti del cinema orientale: di tre atti sopravvivono solo un episodio del secondo atto e metà del terzo, mentre ormai il primo atto, che narra delle origini del brigante  antieroe Chuji Kunisada, è andato definitivamente perso. Il film, nella sua interezza sarebbe dovuto durare ben quattro ore.

Chuji è ormai, all’interno della regione, un ladro quasi leggendario appartenente alla Yakuza. Braccato, è costretto a cambiare identità e ad abbandonare il figlio adottivo, e lavora così come impiegato all’interno di una distilleria di sakè, sotto il nome di Sadakichi. Nessuno potrebbe sospettare che sotto la sua nuova identità si potesse celare uno dei più pericolosi fuorilegge del tempo. Ma le cose non durano. Chuji viene scoperto dalla polizia, e miracolosamente, grazie ai suoi fedeli uomini, riesce a fuggire di nuovo. Ma la paralisi di cui soffre torna più forte che mai, ora che non è più giovane, e viene costretto su una barella, mentre i suoi uomini, che si sono riscattati dalle malefatte compiute tempo prima, si uniscono in un’ultima resistenza al fine di assicurargli la libertà. Ma il sacrificio non basta, la polizia riesce ad arrivare a Chuji e ad arrestarlo per i suoi misfatti.

Il film, dopo l’ultimo restauro, è stato proposto quindi ieri sera alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, allegato ad un piccolo resoconto degli interventi operati su di esso. Sale sul palco, prima della proiezione, il direttore David Robinson, che presenta il film parlando della sua storia e del significato che esso ha all’interno della cultura orientale. Poi, buio. Mentre l’ensemble Otowaza, formata da piano, shamisen (strumento a tre corde simile ad uno liuto) e percussioni comincia a far aleggiare le prime note all’interno della sala, fa la sua entrata il narratore, Ichiro Kataoka. La narrazione benshi è la narrazione che viene fatta per un film muto. Un’unica persona agisce da doppiatore per tutti i personaggi, da narratore e commentatore dell’opera, tutto rigorosamente con i giusti accenti e dialetti del tempo.

Comincia il film, e mentre le scene si fanno da forti a leggere, da vivaci a statiche, e le musiche diventano sempre più incalzanti o sempre più lente e ritmate, Ichiro passa fluentemente da un accento all’altro, da una voce all’altra, da una parte di narrazione ad un commento. É lui a muovere i fili della storia, mentre Chuji, braccato dalla polizia, combatte, corre, fugge, cade, si rialza, consapevole tuttavia del proprio destino.

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