“A cura di Franco Basaglia”, si legge sotto il titolo. Di capitoli scritti da Basaglia se ne contano in realtà pochi, ma questo non è che un pregio: la raccolta offre uno spaccato nitido e completo delle radici e degli estremi di riferimento del movimento basagliano, fotografando una realtà ancora pienamente in fieri. Si fanno strada tra le pagine i commenti di Franca Ongaro, Lucio Schittar, Domenico Casagrande, Agostino Pirella, Antonio Slavich, Michele Risso, Letizia e Giovanni Jervis, e non da ultime le parole dei malati, con alcuni dialoghi registrati durante le assemblee di comunità all’OPP di Gorizia: un racconto a più voci che parla di un manicomio tradizionale che sta aprendo le porte, di una psichiatria che sta ragionando sulla propria storia e sulla propria funzione, di persone alla ricerca di nuove identità e nuovi ruoli dove prima dominavano violenza e soprusi o, peggio ancora, paternalismo e sudditanza. Siamo nel 1967: a Gorizia qualcosa è stato già fatto, molto è stato già detto, ma bisognerà attendere qualche anno per la fondazione del movimento di Psichiatria Democratica (1973) e perchè l’occhio dell’OMS si sposti su Trieste.

L’osservazione da cui è necessario partire è la seguente: la psichiatria è in sè criticabile perchè poggia su basi ambivalenti. Se poniamo che le contraddizioni (ad esempio la compresenza di follia e ragione nello spettro della condizione umana) facciano naturalmente parte della realtà, ma che gli uomini – ai quali le contraddizioni non piacciono perché destabilizzanti – traggano un vantaggio in termini di sicurezza interna e sociale nell’elidere i termini di tali contraddizioni, non risulta difficile comprendere come la follia non venga accettata all’interno della società, la quale “incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla”. Quest’ultima affermazione appare in contrasto con lo scopo dichiarato invece ufficialmente dalla psichiatria che, in quanto annoverata fra le scienze mediche, si occuperebbe di far stare meglio le persone.

Altresì ambivalente risulta perciò il ruolo che la società vuole conferire allo psichiatra: se da un lato essa vuole che il medico curi la persona dalla malattia nell’interesse della persona stessa, dall’altro essa chiede al medico e al personale sanitario di tutelare e custodire il malato, mettendo in atto misure di sicurezza che prevengano e contengano la sua pericolosità e ne nascondano la presenza inaccettabile. La finalità terapeutica e l’interesse del malato assumono spesso un retrogusto amaro di copertura per mascherare l’incapacità e la reticenza degli individui “sani” ad accettare la presenza del malato mentale nella società. Ecco pertanto che allo psichiatra da questa duplice e ambivalente richiesta risulta una duplice possibilità di fallimento agli occhi del mondo (lo curo o lo contengo?).

 Anche svincolato dalla critica alla psichiatria asilare a cui faceva più specificamente riferimento Basaglia, il ragionamento mantiene il proprio valore. Appare chiaro che stiamo limitando il problema alla sola prospettiva sociologica (non ci stiamo occupando di psicopatologia), prospettiva che però risulta fondamentale per discernere, di fronte alla persona, quale peso abbia la sua malattia e quale peso abbiano la vita, le condizioni ed il giudizio a cui è stata forzata in quanto portatrice dell’etichetta “malato mentale”.

Con il termine regressione istituzionale Basaglia intendeva infatti quel modo di essere patologico (descritto da altri autori come nevrosi istituzionale o sindrome da istituzionalizzazione totale o sindrome asilare) che diventava dominante nei malati psichiatrici dopo un periodo di istituzionalizzazione e che ben poco aveva a che fare con l’entità della malattia mentale che aveva condotto al ricovero, essendo un prodotto della strutturazione che la società aveva voluto per quella determinata condizione. Fenomeno che gli autori non ritengono dissimile da quanto osservato nelle prigioni, nei campi di concentramento e in alcuni orfanotrofi.

L’importanza dell’indagare le origini della critica basagliana all’istituzione psichiatrica nonostante questa oggi sia sostanzialmente modificata risiede nel fatto che, storicamente, non è individuabile una netta cesura tra prima e dopo, bensì (senza entrare nello specifico delle situazioni attuali assimilabili ad aspetti della vecchia realtà asilare) esiste una storia di lenta evoluzione fatta anche di compromessi e strascichi che continuiamo a portarci dietro.

Sottolineando ancora una volta il peso che la prospettiva sociale ha anche nella demarcazione del confine tra “sano” e “folle”, il sociologo canadese Erving Goffman (cui è dedicato il commento di Franca Ongaro nell’ultimo capitolo) fa molto acutamente notare come i motivi che conducono la persona al ricovero psichiatrico spesso abbiano ben poco a che vedere con l’effettiva gravità della malattia, bensì correlino più strettamente con altri fattori quali la clamorosità della trasgressione, l’opinione della comunità, la condizione economica e, nondimeno, la vicinanza di un centro a cui rivolgersi.

Il vero punto di svolta, a mio giudizio, si trova nel passo successivo del nostro ragionamento. Sarebbe sterile fermarsi ad una analisi del ruolo della psichiatria e della necessità del sua esistenza, per quanto acuta essa sia (e qui non posso esimermi dal dire che il libro offre molti più spunti di quanti io sia riuscita a riportare), senza poi chiedersi: “e quindi, che si fa?”.

Durante un incontro a Pordenonelegge nel 2015, Domenico Casagrande ha affermato che, a differenza di quello che si potrebbe essere portati a credere, Basaglia non promuoveva affatto una forma antipsichiatria come soluzione. In effetti, Basaglia non parla mai di alcuna soluzione: egli solleva il problema, spinge alla dialettizzazione delle contraddizioni presenti nella realtà psichiatrica e alla ricerca di nuove possibili soluzioni ma, di fatto, non ne indica alcuna. Pensandoci bene e considerando quanto detto finora, non potrebbe essere altrimenti: perchè criticare una istituzione e un intero sistema di preconcetti  per poi somministrarne altri, nuovi e scintillanti su di un vassoio d’argento, ma pur sempre preconfezionati? La realtà poco si presta a restare chiusa entro questo genere di “soluzioni acontraddittorie”: in questi termini è nata la psichiatria, così è stata finora, così si comporta la società e questo intreccio non può essere semplificato, seppur profondamente contraddittorio.

Quello che conta, concluderà Basaglia anni dopo nelle Conferenze brasiliane (1979), è l’essere riusciti a dimostrare che la realtà psichiatrica poteva essere diversa da quella esistita fino ad allora, ovvero la realtà manicomiale; l’essere riusciti a sbloccare i vecchi ruoli che tenevano reciprocamente incatenati medici, infermieri e malati per cercare una relazione nuova, un rapporto in cui più onestamente il malato possa ravvisare le contraddizioni che lo tengono imbrigliato e vedere dall’interno gli ingranaggi della macchina che lo vuole, per qualche motivo, diverso dagli altri. Noi ci illudiamo che la legge 180 abbia risolto le cose e chiuso la partita: dovremmo invece assimilare l’idea che ogni punto di arrivo non è che un altro punto morto, perciò non possiamo che dedicarci ad una ricerca continua.

Ciò che risulta importante, per il momento, è riuscire a mantenere, affrontare ed accettare le nostre contraddizioni, senza essere tentati di allontanarle per negarle. Il compito della psichiatria attuale potrebbe essere quello di rifiutarsi di ricercare una soluzione della malattia mentale come malattia , ma di avvicinare questo tipo particolare di malato come un problema […]

(F. Basaglia)

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