È difficile, per noi che viviamo stabilmente in una democrazia moderna, pensare che dai totalitarismi della prima metà del Novecento possa nascere qualcosa di “grandioso”. La parola giusta è diversa : “monumentale”. 

Tutti le dittature hanno la tendenza ad autocelebrare se stesse e i propri ideali, e la maniera migliore è usare l’arte a fini di propaganda. In particolare, esse utilizzano scultura architettura e il cinema, che proprio negli anni ’20-’30 si andava sviluppando in maniera repentina.

Tutto questo c’è lo spiega  Gian Piero Piretto, professore di Lettere all’università di Milano, grande esperto di cultura Russa, insieme con Alberto d’Agostino, giovane ricercatore di storia dell’arte, e Roberto Pinotti, artista.

I tre professori fanno una veloce carrellata dei maggiori assolutismi del secolo: si inizia dall’ Urss di Stalin, e dalla parata per la celebrazione dei 20 anni della rivoluzione d’ottobre. Scorrono le immagini dei  migliori atleti dell’Unione Sovietica, uomini nerboruti e donne slanciate che sfilano nella piazza rossa sotto gli occhi di Stalin. Egli è un dittatore particolare: è carismatico, ma non espansivo; parla di se in terza persona, è sobrio anche in pubblico e non gradisce troppo il contatto con le masse.

Tutto l’opposto di Hitler, che invece faceva dei bagni di folla oceanici e del contatto col suo popolo il suo punto di forza. Scorrono le immagini del film di Leni Riefenstahl, la regista “ufficiale” del regime, dedicato alle olimpiadi di Berlino del 1936, e poi fotografie di alcuni palazzi disegnati da Albert Speer, detto “l’architetto di Hitler”. Per Piretto sono, nonostante tutto, opere di un grande valore estetico.

Con D’Agostino si passa a parlare dell’Italia fascista. Il regime di Mussolini esaltava la magnificenza dell’antica Roma, ma ciò non impedì che i ruderi intorno al Colosseo e ai Fori Imperiali venissero rimossi proprio su ordine del duce, per favorire la realizzazione delle strade moderne. “ Nelle dittature, il monumento antico ha valore quando ha un significato estremamente simbolico o è facilmente decontestualizzabile: non viene mai mostrato nel suo vero significato”

Ma le dittature non portano con se solo le opere autocelebrative di se stesse: ci sono anche le opere che ricordano le vittime della dittatura. Piretto e Pinotti parlano di “anti-monumento”: per contrasto con le colossali opere di regime, questi sono sobri e semplici, cupi, spesso anonimi a ricordarci che potrebbe succedere di nuovo e a chiunque . Per esempio, il monumento eretto a Berlino per le vittime dell’Olocausto: è una stele spoglia, senza figure, riportante solo i nomi delle vittime Berlinesi. Altri esempi di “anti-monumenti” sono le tombe degli italiani caduti nella campagna di Russia ( delle croci anonime sparse qua e la fra i campi di Russia e Ucraina) e ciò che sorge oggi a Ground Zero ( le due vasche circondate da alberi con incisi dentro i nomi dei morti nell’attacco alle Torri Gemelle)

Ci sono poi gli sfregi compiuiti a scopo dimostrativo dagli oppositori ai regimi. Piretto porta l’esempio della Primavera di Praga: dopo aver respinto la rivolta grazie all’intervento militare sovietico, il Partito Comunista fece costruire una statua raffigurante un carrarmato di pietra; questo non aveva tanto valore celebrativo, ma era soprattutto un monito alla popolazione. Trent’anni dopo, il carrarmato fu smontato e fatto navigare con una chiatta sul Moldava, il fiume di Praga, dopo essere stato ridipinto di rosa. Pinotti ricorda anche che durante l’ultima rivoluzione ucraina la statua di Lenin a Kiev è stata pitturata con i colori della bandiera nazionale.

L’ultima immagine a venire mostrata in chiusura dell’incontro è vecchia di solo un mese: la piazza di Pyongyang, piena di persone ciascuna munita di un ventaglio, che girano a tempo e simultaneamente per creare volti sorridenti e altre immagini di pace e prosperità. Così ha voluto il dittatore Kim, l’ultimo dei dittatori assoluti, monumentale come i predecessori. Perché come conclude Pinotti, “l’opera serve a far capire al singolo di non aver altere possibilità di sopravvivenza, se non entrare metaforicamente nel monumento.”

 

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