Palermo, 1982.

Pio la Torre ed il generale Carlo Alberto dalla Chiesa vengono uccisi dalla “mafia vincente” e la sua tracotanza.
Negli anni precedenti la stessa sorte è toccata a Boris Giuliano, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa e molti altri, tra le fila dei servitori dello Stato impegnati nella lotta alla mafia e  tra i comuni cittadini.
Una faglia ha squarciato gli equilibri di potere esistenti in cosa nostra, provocando una serie di eventi sismici che travolgono lo status quo criminale e la società, senza che le spinte sotterranee che ne sono l’origine possano leggersi con chiarezza se non nei punti di emersione, come l’omicidio del boss Stefano Bontade nel 1981.

La gerarchia mafiosa sta mutando con la presa di potere dei corleonesi, e con essa cambiano la pelle del fenomeno criminale e la sua struttura economica.
Mentre l’Italia gioisce per la vittoria del terzo titolo mondiale della propria nazionale di calcio, a Palermo ed in Sicilia si contano i morti ammazzati, i corpi inzuppati nel sangue e le lupare bianche.

Negli stessi anni un giovane giornalista, Antonio Calabrò, scrive per L’Ora di Palermo, giornale vicino al PCI che ospita le riflessioni dei maggiori intellettuali di passaggio in Sicilia, da Visconti ad Adorno passando per Guttuso e, ovviamente, Sciascia.
L’Ora in quei tempi è però anche, forse soprattutto, un giornale di cronaca nera che racconta la violenza di quegli anni ed alimenta l’impegno civico e culturale contro cosa nostra.

Pordenone, 2016.

Uno spezzone del film “I 100 giorni a Palermo” di Giuseppe Ferrara apre l’incontro tra quel (meno) giovane giornalista ed il pubblico di Pordenonelegge, che affolla la sala del convento San Francesco.
Accompagnato da Enzo D’Antona, direttore de Il Piccolo e suo collega ai tempi de L’Ora, Antonio Calabrò presenta il suo ultimo libro: “I mille morti di Palermo“.

L’opera ci racconta gli anni più difficili per il capoluogo siciliano e le efferatezze della «mattanza», ma anche le reazioni ed il sacrificio di chi non si è arreso alla ferocia criminale; di come era possibile morire solo perché si era tamponata l’automobile sbagliata e soprattutto di quelle mille morti registrate tra il 1979 ed il 1986, un numero «incompatibile con la civiltà democratica».

Quella battaglia contro la mafia, che trova epilogo nel passaggio in giudicato delle condanne comminate dai giudici del Maxiprocesso, è stata vinta dallo Stato.
La mafia tuttavia, se è stata fermata allora dall’esercizio magistrale e corretto dei poteri pubblici, è  tutt’oggi un male che non è stato debellato.

E infatti Calabrò, che tra le altre cose ricopre oggi il ruolo di Vicepresidente con delega alla legalità di Assolombarda, mette in guardia: alla parabola discendente di cosa nostra ha fatto da contraltare l’ascesa della ‘ndrangheta, che permea il tessuto economico anche al Nord e non ha bisogno né volontà di sparare e di far accendere su di sé i riflettori della cronaca.

Per questo, a 30 anni dall’inizio del procedimento istruito dal celebre pool antimafia, l’autore ha sentito l’esigenza “che tutti noi, e i ragazzi, queste cose ce le ricordassimo».
I mille morti di Palermo” è insomma scritto con intento preciso: poter raccontare un futuro migliore tramite la narrazione di un passato tragico, nel quale la paura di essere uccisi non paralizzava la resistenza e si esorcizzava con pensieri come «quelli a sparare erano davvero bravi, se lo avessero fatto in ogni caso non me ne sarei accorto».