Scegliere di addentrarsi nell’universo di Thomas Hardy comporta, per il lettore, la capacità di lasciarsi alle spalle ciò che lo circonda per immergersi totalmente in un nuovo mondo, vivido e reale esattamente come quello in cui già vive.

È esattamente come entrare in un’agenzia di viaggi, scegliere una meta e acquistare il biglietto. Un attimo e sei già via, libero di poterti inoltrare senza pensieri nella luminosa campagna inglese, tra il verde brillante dell’erba dei pascoli e la fitta oscurità misteriosa dei grandi boschi secolari, vero tratto distintivo della zona.

E come in ogni viaggio che si rispetti, non si può evitare di entrare in contatto e di fare la conoscenza con gli abitanti locali, gente alla buona, perlopiù braccianti, che passano le loro giornate al lavoro nei campi senza mai una sosta, se non quella serale, che li vede riuniti attorno al tavolo di una taverna a bere l’ultimo goccio della giornata o a casa, davanti al fuoco, a trovare ristoro nel conforto familiare.

Ma un passo importante, fondamentale, necessario per riuscire a conoscere davvero la zona in cui si trova è quello di fermarsi ad ascoltare le antiche leggende, i racconti tradizionali, che spesso si uniscono e si fondono con le vicende più recenti, senza che si riesca più a comprendere cosa è realtà e cosa scaturisce dall’immaginazione del cantastorie.

È attraverso questi racconti che il viaggiatore potrà entrare in contatto con la storia di Tess Durbeyfield – o D’Urberville, come ha scoperto di chiamarsi –, protagonista di uno dei più celebri romanzi dell’autore inglese, Tess dei D’Urberville. Tess è giovane, bella, intelligente, desiderosa di apprendere ma perfettamente consapevole del suo status, della condizione della sua famiglia, a cui è molto legata e devota; è orgogliosa, testarda, ancorata alla terra a cui sente e sa di appartenere e da cui non desidera il riscatto sociale. Tuttavia, il riscatto sociale è proprio ciò a cui aspirano i suoi genitori, dopo essere venuti a conoscenza della loro appartenenza a un’antica famiglia della nobiltà locale, la più importante della zona – i D’Urberville –, ora decaduta e della quale non sono rimasti altro che una tomba di famiglia e un cucchiaio d’argento con lo stemma inciso.

Quanta importanza può avere un nome? Conta davvero nel giudicare un individuo o sono le sue azioni a definirlo? Perché un nome antico – seppure illustre – dovrebbe cambiare il corso delle cose più della stessa volontà di chi lo possiede?

Perché è da queste domande che Tess si ritrova sommersa, più o meno inconsciamente. Da un lato la vita che aveva sempre immaginato, ancorata alle sue radici, al suo villaggio, libera da obblighi, da un passato remoto che non le appartiene e di cui non sospettava nemmeno l’esistenza; una vita appagata e (forse) felice nella sua semplicità. Vita che viene spazzata via per un’improvvisa impennata di presunzione che pervade l’animo dei signori Durbeyfield, il cui nuovo disprezzo verso tutto ciò che ritengono inferiore li porta a spingere la figlia tra le braccia di un sedicente parente, evento che costituirà solo l’inizio delle disavventure di una povera fanciulla, la cui innocenza viene distrutta da un meschino desiderio di rivalsa e da una inesistente superiorità.

Ma il riscatto non è previsto, non è ammesso, non viene realmente preso in considerazione; quando un’anima è perduta una volta lo è per sempre. Tess impara che dal passato – lontano o vicino che sia – non si può scappare; esso ci insegue come un’ombra, silenzioso ma presente, pressante, ossessivo. Sempre vivo, mai distante. Si può cercare di imbrogliarlo, di allontanarsene, di provare a dimenticarlo persino; ma esso sarà sempre lì, freddo come il ghiaccio e duro come la pietra, eterno come il tempo, la cui memoria non può mai davvero essere cancellata perché una semplice parola, un semplice sguardo, un banale ricordo lo riporterebbe immediatamente alla luce.

Ma per il lettore esso rappresenta un monito, l’avvertimento a non lasciare in alcun caso che la volontà di altri prenda il sopravvento schiacciando, demolendo la propria. Perché, se da una parte la fuga resta impossibile, dall’altra la voglia di ricominciare e la possibilità di redenzione non smettono mai di mollare la presa.

“Giustizia” era fatta e il Presidente degli Immortali, per dirla con una frase di Eschilo, aveva finito di divertirsi con Tess, mentre i cavalieri e le dame dei D’Urberville dormivano nelle loro tombe, inconsapevoli. I due muti osservatori si chinarono a terra come in preghiera; e rimasero così per molto tempo, assolutamente immobili: la bandiera continuava silenziosamente a sventolare. Appena ne ebbero la forza si levarono, si presero di nuovo per mano e continuarono il cammino.