Svetlana Aleksievich è stata insignita, nel 2015, del Premio Nobel per la Letteratura. Non scrive romanzi, non si legge per la fluidità della scrittura o per le superbe caratterizzazioni paesaggistiche; uno scrittore che sappia fare davvero il proprio lavoro può rendere al lettore un servizio davvero senza tempo, ma questa autrice bielorussa ha fatto, se possibile, ancora di più. Quello che ci offre non è pura e semplice finzione narrativa, ma un patrimonio che si spinge ben oltre quello della creazione letteraria: Svetlana Aleksievich scrive, e soprattutto trascrive, l’umano. Niente di più, niente di meno. Una parola piccola, umano, spesso fraintesa, calpestata, venduta; una parola quasi deludente, ma che trae la propria forza dall’immensa varietà di emozioni e immagini che può suscitare. E per il confine, sempre troppo labile, tra ciò che è e ciò che non è.

Nata in Ucraina da padre bielorusso madre ucraina, Aleksievich è cresciuta e ha vissuto in Bielorussia, almeno fino a quando un procedimento penale è stato aperto nei suoi confronti. Ragazzi di zinco, pubblicato nel 1989, raccoglie le esperienze, il dolore e le speranze dei giovani sovietici inviati in Afghanistan: e per molti, soprattutto per il presidente Lukašenko, la Verità era un boccone amaro, prematuro, sgradito. Accusata addirittura di essere un’agente dei servizi segreti americani, Aleksievich è stata costretta ad abbandonare il proprio Paese e a trasferirsi in Europa.

Tempo di seconda mano è il suo penultimo lavoro, pubblicato nel 2014. E’ denso, difficile, controverso, aspro, ma – come qualsiasi opera letteraria degna di questo nome – necessario. Immaginate di trovarvi di fronte ad un film che racconti, più o meno bene, un fatto storico; non ha importanza di quale fatto si tratti, ma saprete – quasi a colpo sicuro – che non vedrete nulla di diverso da quanto sappiate già. Una battaglia, un comizio, un assassinio, un viaggio, un’alleanza: il protagonista occuperà tutto lo spazio disponibile sullo schermo, facendo in modo che tralasciate – o dimentichiate – qualsiasi contorno. Se Tempo di seconda mano fosse una pellicola, invece, l’unica cosa che vedreste sarebbe lo spettatore in un angolo, la comparsa mal pagata e transitoria, il personaggio che può ritagliare per sé appena venti secondi di gloria: Svetlana Aleksievich ci permette di leggere, di fare nostre e di sentire vicine le testimonianze di decine di persone altrimenti sconosciute, abbandonate, sospese. Come si viveva, in Russia, dopo il crollo del comunismo? A questa domanda ha risposto la Storia, quella con la S maiuscola; ma, fino a poco tempo fa, tutte le altre storie non avevano avuto alcuna voce in capitolo. La polifonia nella storia della letteratura russa è caratteristica quasi scontata (quante voci sapeva esplorare Dostoevskij in una sola opera?), ma Aleksievich la fa sua e la mette al servizio del concreto, del reale, della crudezza e dell’ingenuità che solo un essere umano, fatto di carne e di sangue, può insegnarci. Padri e figli di un’ideologia che ha cambiato il mondo, in ginocchio di fronte alle loro stesse debolezze e ai loro stessi rimpianti; costruttori di un sistema condannato, eppure – e non ci pare strano pensarlo – capaci di una lucidità, di una limpidezza e di una trasparenza sempre chiare, oneste. Come si descrive, del resto, l’animo russo? La genialità, per quanto arguta, di una storia inventata non basterebbe; occorre scavare a fondo, con perizia e dedizione, con la parola vera e senza filtri, con la conversazione.

Per un artista la barricata è un posto pericoloso. Una trappola. […] Da lassù non discerni più l’essere umano, vedi solo un puntino nero, un bersaglio. Ho passato tutta la mia vita sulle barricate, e vorrei lasciarle e tenermene lontana. […] Ma decine di migliaia di persone scendono nuovamente in strada. Si prendono per mano. Hanno dei nastri bianchi sulle giacche. Simbolo di rinascita. Di luce. E io sono con loro.

C’è tutto. Ex vertici della nomenklatura, insegnanti, tecnici, contadini, madri, giovani accesi di speranza. Gioia, riscatto, disillusione, vendetta, disperazione per ciò che è stato e che non tornerà. Russi, armeni, azeri. Oggi diversi, un tempo accomunati dall’ardore di un’idea.

L’arte ama la morte, e la nostra arte in modo del tutto speciale. Il culto del sacrificio e del morire, l’abbiamo nel sangue. Vivere da farsi scoppiar l’aorta.

Che se ne fanno, i russi, della libertà? Libertà che “Gorby” ha promesso, con la quale ha nutrito una generazione intera; libertà che si rivela essere l’ennesima prigione, non appena ci si rende conto che la lotta – adesso – è crudele, senza volto e senza quartiere, e non fa sconti a nessuno. Il business, i jeans, la televisione, la musica, e quella parola ancora oggi incomprensibile: capitalismo. La promessa di un paradiso terrestre, e poi – d’un tratto – il disincanto. Freddo e sterile, ancor oggi strisciante.

Dal 1991 al 2012, decine di vite affidate ad un registratore manuale e alla carta. Non un romanzo, non un saggio, non un reportage; Svetlana Aleksievich riesce, come in un miracolo, a darci la poesia delle piccole cose, la gioia e il dolore dell’uomo posto – finalmente – di fronte a se stesso. Le persone di cui leggiamo hanno già fatto i conti con il loro Giudizio Universale, si sono viste assolte e condannate; persone che ci chiedono, con tutte le forze rimaste, di non essere dimenticate. Tempo di seconda mano (che nel suo titolo originale, Время second – hand, sembra essere ancora più provocatorio), è un monumento a tutto ciò che di umano c’è, c’è stato e mai ci sarà in questo mondo, un punto da tenere fermo, un invito a guardare, a comprendere, a perdonare e perdonarsi.

Io ho sempre aspettato qualcuno, buono o cattivo che fosse, l’ho continuamente aspettato. Ho aspettato tutta la vita che qualcuno mi trovasse. Per potergli raccontare tutto… e che lui mi chiedesse: ‘E poi cosa è successo?’ Adesso hanno cominciato a dire che è colpa del socialismo, di Stalin… Come se Stalin avesse lo stesso potere di Dio. Ognuno aveva il suo Dio.

Lascia un commento