William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato di ricerca e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956.

Piuttosto deludente, penserebbero in molti, che un’intera vita possa davvero essere riassunta in così poche righe. Anni e anni di sforzi (ma non sembrano secoli, dopotutto?), miliardi di momenti accavallati l’uno sull’altro, la vecchia e mai sopita battaglia che ognuno si sente in dovere di combattere per poter dire a se stesso, in tutta coscienza, di aver fatto qualcosa per meritarsi il proprio posto nel mondo; tutto questo, all’improvviso vanificato. Una vita, con tutte le sue immense diramazioni, ridotta ad un insieme di fatti, di titoli, di incarichi. E ci si chiede spesso, allora, da dove possano venire l’entusiasmo, la gioia delle piccole cose, la poesia del quotidiano, l’ebbrezza del sentirsi vivi: abbiamo davvero bisogno di vivere vite straordinarie per saper cogliere il fiore, l’alba di ognuno di noi?

Per nostra fortuna, ci sono romanzi che possono aiutarci a rispondere a queste domande. Che non hanno la pretesa di insegnarci nulla, ma che accarezzano la mondanità e la mediocrità del quotidiano con una delicatezza sorprendente. Stoner è uno di quei romanzi: un libro raro, che riesce – quasi inspiegabilmente – a fare di una vita normale una poesia, lenta e bellissima.

Pubblicato per la prima volta nel 1965, è opera dello statunitense John Williams. Nato in Texas nel 1922 e cresciuto in una famiglia di modeste condizioni economiche, combattè la seconda guerra mondiale in India e Birmania. Al rientro dal fronte si stabilì a Denver, in Colorado, dove rimase a insegnare all’università fino all’anno della sua morte, il 1994. Nei primi anni successivi alla pubblicazione, Stoner passò praticamente sotto silenzio, vendendo soltanto duemila copie; rimasto nel dimenticatoio per quasi quarant’anni, venne ripubblicato nel 2003 dalla casa editrice statunitense Vintage Classics, riscuotendo quasi immediatamente un successo senza precedenti. In Italia, il romanzo è stato pubblicato da Fazi Editore soltanto nel 2012.

La trama, da una pigra lettura dell’interno di copertina, può apparire del tutto banale, di una piattezza quasi sconcertante: il romanzo narra la vita, dalla nascita alla morte, di William Stoner, professore di letteratura inglese all’Università del Missouri. Fin dalle prime pagine è chiaro, però, che quello che John Williams ci ha lasciato non è solo un testamento professionale, o un banale racconto, ma il ritratto, drammatico, di un’intera epoca.

Nato in una poverissima famiglia di contadini, Stoner si iscrive all’università per volere del padre, che lo vorrebbe laureato in agraria. Il ragazzo porta sulle spalle il fardello della fatica, l’eredità sordida e schiacciante di chi è perennemente costretto a lottare per la propria sopravvivenza, e si piega al comando con docilità, quasi con muta freddezza, dedicandosi diligentemente allo studio. Un giorno, però, accade qualcosa. Durante una lezione di inglese, Stoner viene colpito da un’improvvisa consapevolezza: quando un professore si rivolge a lui per porgli una domanda su un sonetto di Shakespeare, avverte un inspiegabile quanto definitivo cambiamento nel suo essere, uno stimolo che lo sconvolge nel profondo. Smette di seguire i corsi di agraria e si iscrive a filosofia, storia antica e letteratura, scegliendo una volta per tutte la passione che lo tormenterà per tutto il resto della vita.

La letteratura, l’inenarrabile magia del pensiero che prende forma su carta, diviene dunque con gli anni un rifugio, una consolazione e uno spazio inviolabile, ma anche un continuo tormento, un’ebbrezza che non lascia dormire, un trasporto che non concede respiro. Stoner, nella propria indulgente mediocrità e nella propria vita avara di soddisfazioni, trova una parentesi di felicità nella dedizione instancabile al lavoro, allo studio, nell’amore viscerale e appassionato (quasi disperato) per la conoscenza. E’ un uomo come tanti, ma la pulizia e il candore con cui John Williams ne tratteggia le sfumature fanno della sua storia una lezione (se non una filosofia) di vita.

Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata. Sospettava che alla stessa domanda, prima o poi, dovessero rispondere tutti gli uomini. Ma si chiedeva se, anche agli altri, essa si presentasse con la stessa forza impersonale. Provava un piacere triste e ironico al pensiero che […] alla lunga tutte le cose erano futili e vuote, e svanivano in un nulla che non riuscivano ad alterare.

L’esperienza di Stoner ci lascia una visione profonda e inevitabilmente diversa del valore del sapere accademico, della passione mai facile per l’insegnamento, di tutto l’ingenuo stupore di chi si trova dall’altro lato della cattedra; ma anche della crudezza e della spietatezza dell’amore, dell’ingiustizia, delle privazioni che tutti – presto o tardi – dobbiamo imporci, delle rinunce in nome di un destino che così ha deciso.

Stoner è un ritratto dolce e indulgente, il canto del cigno di un’epoca, una reminiscenza vaga (ma non per questo meno grandiosa) di un passato ormai lontano. Un romanzo da leggere in punta di piedi fino alla fine, consapevoli della terribile perentorietà delle sue parole.

Una cura per l’anima, anche quando sembra che nulla abbia un senso.