È sempre facile per uno scrittore cedere alla tentazione di termini forbiti, concetti astrusi, citazioni da grandi capolavori letterari; ma una recensione deve rendere giustizia all’intento del testo a cui si riferisce, e a ben vedere, nel caso di Mandami a Dire un linguaggio troppo ricercato non assolverebbe il proprio compito.

Se azzardassimo l’ipotesi che l’intento di questa raccolta di racconti sia prima di tutto antropologico, non credo che correremmo il rischio di venirne smentiti; appare chiara la volontà di scandagliare gli animi, di osservare e descrivere i comportamenti, le azioni, le intenzioni. Ma un’osservazione del genere è decisamente troppo generica; ciò che è importante notare, e ciò che a mio parere rappresenta l’aspetto più interessante della poetica di Roveredo, è il fatto che i riflettori sono puntati proprio su ciò che non è mai stato al centro dell’attenzione, su ciò che è normale.

La quasi totalità del mondo che ci circonda, delle persone, delle cose che ci accadono, si può senza indugio definire normale. Un mondo talmente normale che il nostro occhio, che ha fame di inaudito, di straordinario, tende a ignorarlo. Normale è anche ciò che fa comodo che resti normale: occhio non vede, cuore non duole; normale è il lavoro minorile (Succo d’aceto), normali sono i padri che rinchiudono i propri figli nello sgabuzzino (Brutti sgabuzzini). Un cliché profondamente radicato nelle nostre coscienze, che questo libro si propone di abbattere.

Chi, con questi presupposti, potrebbe avere l’intenzione di posare lo sguardo su ciò che di norma non si vede? Ci vuole una sensibilità fuori dal comune per saper leggere dentro le azioni di una persona comune, monotona, che da quarantatrè anni mette i coperchi sopra i vasi di vernice in una catena di montaggio (L’uomo dei coperchi), o di una coppia di mezza età che “sabato pollo e patatine al forno, martedì lavatrice, giovedì stiratura, domenica Santa Messa e fiore al Camposanto” (La famiglia Starnazza). Una sensibilità del genere deve provenire da un individuo che ha addossato su di sé tutti i pensieri e le sofferenze del genere umano, animale e vegetale. Un individuo che è capace di parlare dei drammi amorosi di un matto per un’amata di cui da anni non conosce la sorte (Mandami a dire), con una tale dolcezza, non può lasciare indifferente il più freddo degli intellettuali.

L’analisi antropologica di Roveredo è un’analisi intima, che guarda a se stesso prima di tutto come parte del genere umano, ben lungi dall’occhio distaccato dello studioso che si infiltra in ciò che è diverso da sé e ne nota gli aspetti più rilevanti; la sua prosa è semplice, a volte addirittura colloquiale, e rappresenta a pieno la celebrazione della normalità, il realismo scevro di particolari pulp e toni moraleggianti.

Man mano che ci si lascia alle spalle un racconto dopo l’altro, il filo conduttore diventa sempre più chiaro: la letteratura insegna che la pluralità del nostro patrimonio culturale, pur implicando un criterio di giudizio soggettivo da parte di ognuno, spinge all’armonia delle differenze. Raccontare la sensibilità dei vinti, dei mediocri, mettendoli a nudo davanti agli occhi del lettore, non può che spingerlo ad immedesimarsi in essi, a prescindere da quanto se ne senta estraneo.

 

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