Casarsa della Delizia è un comune italiano della provincia di Pordenone dove soleva passare le estati il poeta, scrittore, drammaturgo, registra, sceneggiatore, attore, paroliere, giornalista, romanziere, linguista, traduttore, saggista Pier Paolo Pasolini.

Ma a Casarsa scrive e scrive poesie, in dialetto friulano e in lingua italiana.

 

Lo incontro, stavo passeggiando. Sono gli anni Sessanta, la frenesia per il boom economico italiano si sente e le fattorie si riprendono bene dalla guerra, le industrie sono attive e proliferano. Siamo a Casarsa della Delizia, nel Friuli Venezia Giulia, poco distanti dal Tagliamento.

Mi avvicino, l’ho visto su qualche quotidiano forse o in compagnia di Carlo Emilio Gadda e Giorgio Caproni nella Capitale. Ad Asor Rosa ricordo che non piacque il dattiloscritto Ragazzi di vita,  ma poco importa ora, voglio parlagli delle poesie che ha scritto proprio qui. Mi avvicino, mi presento e si presenta a sua volta. Camminiamo assieme.

Gli leggo una delle liriche che preferisco, Il Nìni muàrt. Vorrei sentire da lui che cosa rappresenta, non voglio dare io una spiegazione o pormi addirittura da critico spocchioso.

“Sera mite all’ultimo barlume, nel fosso / cresce l’acqua, una femmina piena / cammina pel campo.

Io ti ricordo, Narciso, tu avevi il colore / della sera, quando le campane / suonano a morto.

[Jo ti ricuàrdi, Narcis, tu vèvis il colòr / da la sère, quànt lis ciampànis / a sunin di muàrt]”.

Dico poi: “Ma non è tremendamente triste questa poesia? Il tono che si percepisce nel dialetto friulano è terribile, conferisce allo scritto uno strano senso di alienazione e quasi inquietudine. Mi sbaglio?”

Pier Paolo Pasolini, gentilissimo e sempre con quel sorriso in volto che lo contraddistingue mi dice: “Ma non leggi che una “femmina piena / Cammina pel campo”? Io volevo sottolineare come alla sera si ponga l’accento sul giorno morente e non su tutto ciò che ci ha regalato questo dì e quello che verrà domani. Questa vacca a breve partorirà un vitellino, per me è simbolo di gioia, pienezza, ricchezza e quindi vita. Non importa se cala la notte, perché l’oggi ci ha portato delle delizie che domani saranno ancora più grandi.”

Io allora inizio a leggere Pioggia sui confini.

“Ragazzetto, piove il cielo / sui focolari del tuo paese, / nel tuo viso di rosa e miele / tutto verdino nasce il mese.

Brucia e fuma – ultimo giorno – / trista ombra sui gelseti / il sole; sui confini / tutto solo tu canti i morti.

Ragazzetto, ride il cielo / sui balconi del tuo paese, / nel tuo viso di sangue e fiele / tutto sbiancato muore il mese.”

Io azzardo ad aggiungere qualcosa, mi convince a dargli del tu: “Pier Paolo, io ho trovato queste poesie che hanno come data di inizio il 1941. Io ho interpretato questa costante presenza di morte e vitalità appunto come la possibilità di morte o vita dei soldati in guerra. Forse ho sbagliato a volervi leggere quello che non c’era. Cosa ne pensi? Ho letto anche che è stato Gianfranco Contini a consacrarti poeta proprio per queste liriche, nel saggio Al limite della poesia dialettale, uscito sul «Corriere del Ticino» il 24 aprile del 1943. Sono partita appunto dalle sue riflessioni in materia di antifascismo manifestato con il tramite del dialetto della sponda destra del Tagliamento e vi ho visto accenni in alcune figure come i “balconi“, che richiamano alla mia memoria Benito Mussolini. Ho sbagliato il metodo di approccio? Oppure avrei dovuto dare un’interpretazione meno legata alla politica?”

Lui risponde: “Certo che no. D’altra parte Contini è una fonte rispettabile. Le poesie, in primis – riprendo il tuo ragionamento – sono legate alla guerra, anzi. Le Poesie a Casarsa rappresentano per me il primo segno di opposizione al potere fascista che ho potuto manifestare valorizzando il dialetto friulano. Eravamo in una società che osteggiava fortemente l’uso delle lingue barbare poiché proprie delle masse rurali. Anche la sinistra prediligeva l’uso della lingua italiana, purtroppo. Sono voluto andare appositamente contro corrente.  Adopero figure retoriche “fastidiose” come l’enjambement: volevo che anche il verso fosse difficile da leggere, mettendone il termine del ragionamento in quello seguente, desideravo che poesia e struttura gridassero questa mia presa di posizione. “Sangue e fiele” sono rimandi bellici tanto quanto i “balconi del tuo paese”: ricordi che Mussolini parlava spesso alla folla da dei balconi di palazzi pubblici? Il richiamo è evidente e vedo che lo hai colto.”

Io mi sento soddisfatta e chiedo ancora: “Ma quando scrivi O me giovanetto è possibile che parli invece della tua gioventù che ti manca? Mi danno un certo senso di nostalgia i versi “Laggiù, io vivo di pietà / lontano fanciullo peccatore, / sconsolato” e poi ancora “la sera reca l’ombra / sulle vecchie mura; in cielo, / la luce accieca”. Non posso non notale l’enjambement tra i due versi finali, strazianti quasi”

Pasolini: “Un certo senso di malinconia, nostalgia lo ho. In questo posto, a Casarsa, ho passato i giorni più felici della mia vita. Ero un essere ancora innocente e giovane, non conoscevo il mondo, lo stesso mondo con cui ho dovuto avere a che fare subito con la guerra, la Seconda Guerra Mondiale. A Casarsa, tra prati e colline, io stavo bene ed ero felice, non avevo un partito che osteggiava ogni mia mossa, non avevo freni alla mia spensieratezza. Ma mi sono dovuto alzare da questo bel riposo.”

Io: “Mi scuso per le domande, non volevo di certo metterti in imbarazzo o farti rammentare momenti di nostalgia.”

Pasolini: “Per me parlare è sempre un piacere. Ora torno a Roma, cerco una macchina e poi una stazione. Ti ringrazio per la passeggiata e per questo tuffo nel passato. Magari un giorno ci rincontreremo”.

Ho rincontrato Pier Paolo Pasolini, anni dopo, nel 1971, guardando il film Il Decameron, scritto e diretto magistralmente dal grande maestro che quindi conosciamo.

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