Jake è un romanziere di successo, rimasto vedovo in seguito a un grave incidente. Si trova a dover crescere da solo la figlia Katie, a fare i conti con i sintomi di un serio disturbo mentale e con la sua altalenante ispirazione. Venticinque anni dopo, Katie è una splendida ragazza che vive a New York e combatte i demoni della sua infanzia tormentata …

Gabriele Muccino è tornato sul grande schermo con “Padri e figlie”, un film (il quarto americano) e che parla del senso della perdita e dell’abbandono durante l’infanzia. Una infanzia drammatica, quella di Katie, che in poco tempo rimane orfana della madre, mentre il padre Jake (interpretato da Russell Crowe), scrittore di chiara fama e vincitore di un premio Pulitzer negli anni Ottanta, cerca in tutti i modi di non far mancare alla figlia il suo affetto e la sua presenza amorevole, anche quando dovrà combattere contro l’epilessia che lo costringerà ad un breve ricovero presso un ospedale psichiatrico. In tutto questo periodo Katie viene affidata alla zia materna, che nutre verso il cognato un profondo rancore al punto da chiedere in adozione la nipote. Il rientro del padre, apparentemente guarito e intenzionato a riprendersi con tutti i mezzi la figlia, cambierà però i piani dell’algida cognata.

Venticinque anni più tardi Katie (Amanda Seyfried) è una ragazza come tante, porta però dentro di sé un grande dolore che non l’abbandona mai. Fa l’assistente sociale e prende sinceramente a cuore i casi dei bambini disagiati che cerca di aiutare in tutti i modi. Peccato però che Katie è cresciuta con una grande paura di amare, conduce una vita sregolata e si rifiuta di instaurare un legame stabile perché per lei l’amore vero è lutto, separazione e perdita a causa di quell’abbandono vissuto durante l’infanzia. Per trovare la sua strada dovrà, quindi, trovare il modo di vincere tutto questo.

Intuiamo, infatti fin dalle prime scene, che anche Jake muore a causa di un incidente domestico causato dalla malattia. Ha però avuto il tempo di scrivere un libro, destinato a diventare il suo secondo Premio Pulitzer e che parla di un grande amore: quello di un padre nei confronti della propria figlia. Un libro che è quasi un testamento spirituale da lasciare a Katie, come segno tangibile di un amore che nemmeno la morte potrà mai spezzare.

Il film si snoda su due diversi livelli temporali – distanti venticinque anni – e alterna continuamente tra continui flashback, due tempi che disorientano lo spettatore: il tempo presente fatto di vuoti incolmabili e di ferite profonde e il tempo passato. Il tempo in cui Katie è stata una bambina molto amata. Il tempo in cui Katie ha potuto sentire tutto l’amore della madre e del padre, scrittore sensibile sempre in perenne conflitto con i critici. A sostenerlo è il suo agente letterario, interpretato da Jane Fonda, un personaggio appena abbozzato che si dimentica facilmente.

Muccino è come sempre molto bravo nel far affiorare la verità della sofferenza umana e conferma la sua professionalità come regista, dando vita ad un film ricco di emozioni che vorrebbe lasciare allo spettatore un messaggio universale: la forza del vero amore e la forza interiore salvano sempre. In Padri e Figli c’è sicuramente tutto il modo di sentire il cinema di Muccino che ha definito il suo film: “Il più completo su vita, amore, paura di amare, caducità delle cose e che racconta anche il significato dell’infanzia. La causa e l’effetto di quello che accade nei primi sei anni di vita e che determinerà le nostre attitudini”

Peccato però che la tesi di Muccino si scontra con una tenuta narrativa che non convince, complice una sceneggiatura un po’ prevedibile che non permette un autentico arco di trasformazione della protagonista. Perché alla fine il discorso sulla infanzia spezzata e l’incapacità di costruire legami, appare in antitesi con l’amore che Katie ha comunque ricevuto dai genitori e ridondante di luoghi comuni e di contraddizioni: possibile che il ricordo dell’amore paterno e un libro che lo immortala a futura memoria, non abbiano aiutato minimamente Katie nella costruzione della sua personalità da adulta? E come può una persona che non ama sé stessa, vocata all’autodistruzione, aiutare dei bambini disagiati?

Nonostante questi limiti il film ha però il grande merito di concludersi con un lieto fine che spesso il cinema d’autore snobba, lasciando aperta la porta della speranza e della redenzione.

Articolo di Rosella Russo originariamente apparso su Cogito et volo

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