Nell’immaginario collettivo, l’inventario delle armi in dotazione agli oppressi del Mondo non è troppo vario. Forgiato dalle immagini dei fucili d’assalto della guerriglia cubana, della rudimentale contraerea vietnamita, delle granate ebree nella rivolta del ghetto di Varsavia, o a volte di una buona penna, raramente riesce a divincolarsi dalle figure indurite dalla battaglia, sudice e stanche. Tuttavia, esiste oggi un’umanità rinchiusa torturata imbruttita che, nelle più totali ristrettezze, è riuscita a coltivare il santuario di un’arma nuova, un fucile che non s’inceppa, una granata che detona con fragore: il rifiuto a sentirsi sconfitti e la tenacia nel conservare le tradizioni secolari. Susan Abulhawa, dopo il successo ottenuto con Tutte le mattine a Jenin, torna nelle librerie di 30 Paesi con Nel Blu tra il cielo il mare.

La narrazione si sviluppa attorno alla saga di una famiglia palestinese, e inizia negli anni 1947-1948 quando, con una grande offensiva, l’esercito israeliano si appropriò anche di Beit Daras, un villaggio rurale abitato da contadini. Privati di quelle che erano state le terre dei loro padri fino a risalire quaranta generazioni, i profughi saranno condotti al campo di Nusseirat, nella Striscia di Gaza. In sostanza, questo romanzo condivide specularmente molti punti con Cent’anni di solitudine: la fondazione di Macondo è l’esilio da Beit Daras; la leggera presenza degli spiriti, un’opprimente facoltà dei vivi nell’entrare nel regno dei morti; l’ostinata costanza dei caratteri nell’orientarsi secondo il nome di battesimo, due soli occhi dai colori differenti. Le fallimentari imprese solitarie, esigue vittorie di tutti.

La fine di Yehya aveva svelato una verità che si era impossessata della notte. Com’era possibile che un uomo non fosse libero di entrare nella sua proprietà, rendere visita alla tomba della moglie, mangiare i frutti del sudore di quaranta generazioni di suoi avi senza andare incontro alla morte? Per qualche ragione quella domanda brutale fino a quel momento non era penetrata nella coscienza dei profughi, che si erano confusi nella tremenda eternità dell’attesa, aggrappandosi a idee astratte di risoluzioni internazionali, resistenza e lotta.

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