Nell’anno 1378, Marquardo di Randeck sedeva sul seggio patriarcale di Aquileia. Già legato imperiale presso la corte papale di Avignone, in seguito vescovo di Augusta e infine vicario generale dell’imperatore Carlo IV per tutta l’Italia, Marquardo era forse uno dei diplomatici più capaci della seconda metà del XIV secolo, tale da assicurarsi la stima di entrambi i grandi rivali dell’epoca: Papato ed Impero.

A partire dal 1366, anno del suo ingresso trionfale a Cividale, il Patriarca aveva in primo luogo cercato di rafforzare la propria posizione interna. Forte del proprio consenso trasversale, era riuscito a comporre la rivalità tra nobiltà guelfa e ghibellina, riconquistando al Patriarcato i casati di Strassoldo, Spilimbergo, Duino, Ragogna e Partistagno, in precedenza passati agli Asburgo, e i territori di Tolmino e Venzone. Alla politica di consolidamento territoriale, Marquardo associò un importante tentativo di accentramento religioso, con la ristrutturazione della Cattedrale di Aquileia, rinnovato centro del Patriarcato. Ciò andò di pari passo ad un grande sforzo legislativo, volto alla codificazione giuridica scritta del diritto consuetudinario vigente nella Patria, le cosiddette Constitutiones Patriae Foriiulii, che vennero discusse ed approvate dall’omonimo parlamento.

L’atteggiamento autoritario e dinamico con cui Marquardo interpretava la politica interna era reso necessario tanto dalle tendenze autonomistiche di alcuni comuni e di parte della nobiltà del Patriarcato quanto dalla crescente pressione ai confini esercitata dalla Repubblica di Venezia e dagli Asburgo. Proprio a quest’ultimi Marquardo si vide costretto a cedere Pordenone, investendo tuttavia un’ingente somma di denaro (circa 34 mila fiorini) per il consolidamento delle strutture difensive di Tolmino, Portogruaro, Sacile e Torre. Data la duplice minaccia rappresentata dai propri intraprendenti vicini, il patriarca cercò sempre la mediazione tra l’influsso del Papa – per ordine del quale modificherà le Costitutiones, anche contro il parere del parlamento – e quello dell’Imperatore – di cui rimase vicario generale in Italia, guidando le truppe imperiali di stanza in Toscana. Scelse inoltre di rimanere neutrale nei principali conflitti dell’epoca, come la Guerra di Treviso del 1373, tra la Serenissima e Padova, preoccupato piuttosto della coesione interna dello stato. Questa politica accorta portò nel breve termine i risultati sperati. Nonostante una situazione finanziaria comunque difficoltosa, dopo appena una decade il Patriarcato si ritrovò a vivere un momento di rinnovato splendore, tale da giustificare un radicale cambiamento in politica estera.

Nel 1378 si presentò l’occasione propizia. La secolare rivalità tra Genova e la Repubblica di Venezia era sfociata nell’ennesimo conflitto, alimentato questa volta dall’aspra contesa per il controllo dell’isola di Cipro. Forte delle crescenti inimicizie che l’azione egemonica nel mediterraneo aveva procurato alla Serenissima, la diplomazia genovese riuscì a raccogliere una variegata alleanza: Luigi d’Ungheria, pronto ad assalire la Dalmazia veneta, Francesco I da Carrara, signore di Padova, desideroso di vendicare la sconfitta subita appena cinque anni prima, la città di Ancona e il Regno di Napoli, oltre che Leopoldo d’Asburgo. Di fronte ad un tale schieramento di forze, Marquardo non potè fare a meno di scendere in campo dalla parte genovese, sperando in questo modo nella sconfitta del secolare nemico veneziano e nell’alleanza con quello asburgico. A maggior ragione perché il vento della guerra soffiò subito forte nelle vele genovesi.

Mentre la Serenissima tentava di tenere la guerra lontano dalle coste venete e dalmate, l’ammiraglio genovese Luciano Doria portò la flotta proprio nell’Adriatico, mettendo a ferro e fuoco Zara, Caorle e Grado. Vettor Pisani, comandante della flotta della Repubblica, inizialmente distaccata lungo le coste di Cipro, si vide costretto ad un affrettato ritorno in patria. Mentre svernava a Pola, la flotta veneziana venne bloccata e costretta alla battaglia dalle superiori galee del Doria. Era il 7 maggio 1379 e, nonostante la morte di quest’ultimo, i genovesi ottennero una grande vittoria. Nel frattempo, le forze terrestri dei da Carrara, degli Asburgo e di Luigi d’Ungheria stringevano d’assedio la laguna, pur senza riuscire a minacciare direttamente la città. Abile tessitore e in parte fautore del successo genovese era proprio Marquardo di Randeck. Infatti, il Patriarcato si era fatto carico delle spese per il sostentamento della flotta genovese che, distaccata nell’Adriatico, difficilmente avrebbe potuto trovare un valido e rapido appoggio nella città madre. In cambio, Marquardo ottenne grandi acquisizioni territoriali: incorporò Trieste nei suoi domini, assieme a Capodistria, Umago, Rovigno e parte della costa istriana e dalmata, rompendo di fatto l’egemonia veneziana nell’alto Adriatico.

Quando i genovesi conquistarono l’isola di Chioggia, l’accesso più meridionale alla laguna veneta, la guerra sembrava ormai prossima a concludersi. Portando pesanti galee da guerra in laguna e risalendo il litorale di Pellestrina e del Lido, si poteva ora minacciare direttamente Venezia, che si affrettò senza ulteriore indugio a far pervenire al comandante nemico, Pietro Doria, una dichiarazione di resa in bianco. Certo della vittoria, quest’ultimo umiliò i diplomatici, chiedendo in cambio della pace di vedere imbrigliati i cavalli di bronzo della Basilica di San Marco. La reazione di Venezia fu furibonda. Non solo resistette all’assedio tentato dai genovesi, ma passò al contrattacco. Le casse della Repubblica vennero rimpinguate grazie ai prestiti forzosi di nobili e mercanti, una nuova flotta imbastita a tempo di record. Il 22 dicembre, quest’ultima salpò alla volta di Chioggia, al comando dell’ormai ottantenne doge Andrea Contarini. La città fu teatro di scontri asprissimi, che durarono per mesi. Invano gli alleati cercarono di rifornire e prestare soccorso alla flotta genovese intrappolata nell’isola. Il 24 giugno 1380 i veneziani entravano trionfanti a Chioggia, mentre le navi nemiche venivano fatte sfilare alla rovescia, con gli stendardi in acqua.

La guerra si concluse l’anno seguente, con la Pace di Torino. Marquardo di Randeck perse tutti i possedimenti ottenuti e dovette accontentarsi dell’annessione di Trieste alla Chiesa di Aquileia. Nessuno avrebbe potuto preventivare la vittoria della Serenissima, che pure sancì esiti decisivi: il definitivo declino di Genova e l’egemonia veneziana tanto sull’Adriatico quanto sull’entroterra, compreso quello friulano. I fatti di Chioggia si posero come un momento di svolta nella storia di queste due grandi Repubbliche marinare e, in parte, del Patriarcato. Non a caso, Marquardo di Randeck morì proprio quell’anno, la fine di un’epoca.

Immagine: Il Bucintoro del Settecento in un dipinto di Francesco Guardi

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