Il ragazzo alla biglietteria capisce subito da dove veniamo e inizia a parlarci in bel pidgin italo-ispanico. Si chiama Hector, scopriamo poco dopo, ha vent’anni ed è venuto fin dal Messico qui a Magdala, per lavorare come volontario. Si offre di accompagnarci, perché non c’è nessuna guida disponibile in quel momento, e non potrebbe essere meglio di così: dove il suo italiano non arriva, arriva l’entusiasmo che traspare dai suoi occhi. Si vede che è proprio contento di essere dov’è.

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Magdala è un sito giovane, venuto alla luce solo nel 2009, durante i sondaggi archeologici preliminari alla costruzione di un centro di accoglienza per pellegrini dedicato a Maria Maddalena, e fortemente voluto da Padre Juan Solana, che allo scopo aveva acquistato questo lembo di terra tra il lago di Tiberiade e le alture dell’Arbel. Proprio dalle sue pendici si staccarono i detriti che, nel corso dei secoli, seppellirono la città, abbandonata dopo essere stata sottratta agli Ebrei ribelli da parte dei Romani nel 67 d.C.

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Ciò che rimane di questo insediamento, un tempo ricco e popoloso, sembra al primo sguardo solo un dedalo di muri e muriccioli. Tra questi si celano, però, alcuni dei resti più eccezionali di tutta l’area, come i tre mikva’ot (vasche per la purificazione rituale), la piazza del mercato, la sinagoga. Di questa si vedono ancora pareti affrescate e pezzi di pavimentazione, quella sulla quale camminò, con ogni probabilità, anche Gesù di Nazaret.

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Se da tanti luoghi della Terra Santa emergono chiare le divisioni, la territorialità religiosa, la calcolata (e così risibilmente umana) spartizione di ciò che è considerato sacro, Magdala, con la sua bellezza disarmante, richiama all’essenziale. Ci ricorda che religioni e culture sono sempre inestricabilmente intessute in un’unica storia. Qui ci si può solo fermare a contemplare lo spettacolo, naturale e archeologico, di questa splendida città sul lago.

 

(foto dell’autrice)

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