“Tutto si svolse nell’arco di diciotto ore: dal calar del sole di un giovedì alle tre del pomeriggio di un venerdì.”

Così Corrado Augias inizia a raccontarci la propria personale ricostruzione (e interpretazione) di una delle vicende più dibattute della storia: la Passione di Cristo. Lungi dal voler ricadere nel mito e nella leggenda (ma su questo punto torneremo più avanti), Augias precisa subito di aver voluto porre l’accento sull’aspetto politico, per dare un “connotato più fermo” e una cornice storicamente più solida all’intero episodio. Ci parla dunque dell’occupazione della Giudea da parte dei romani: provincia di confine e strettamente dipendente dall’imperatore, questa viveva un conflitto ideologico e religioso particolarmente aspro e violento. Impossibile, per i giudei (o ebrei), comprendere le divinità pagane, così simili ad una maldestra rappresentazione dei vizi e delle virtù umane (troppo umane); allo stesso modo, i pagani diffidano di questo Dio unico, vuoto e immateriale, impossibile da rappresentare, equivalente ad un nulla.

Per dare solidità ad un racconto non bastano, però, i semplici resoconti storici: servono azioni, personaggi concreti, fatti ricostruiti con logica e rigore; tutti elementi, sfortunatamente, quanto mai difficili da reperire, quando si ha a che fare con vicende come questa. Augias si sofferma dunque a lungo anche sulle figure che popolano l’episodio, ormai talmente consumate dal mito e dalla storia da essere diventate pallidi fantasmi: Maria, Giuseppe e Ponzio Pilato riacquistano colore e vigore e tornano ad esistere al di là del mito come personaggi a tutto tondo, ma non possono fare a meno di rivelare la loro sostanziale incompiutezza: “Giuseppe è un uomo sbiadito – dice Augias – relegato in un angolo; una figura irrisolta”. La stessa cosa si può dire di Maria, quasi mai citata dagli Apostoli.  Ponzio Pilato è chiaramente un personaggio “brutale e inadeguato”, incapace di comprendere fino in fondo il popolo e la terra che governa, ma nobilitato e giustificato dai Vangeli.

Anche il supplizio di Gesù, ormai un’icona e un elemento fisso nell’immaginario collettivo, va compreso in tutta la sua solida e storicamente documentata realtà: “l’immagine di Gesù crocifisso è logorata dall’uso distratto che se ne fa”ci fa notare Augias. Dai Vangeli non emerge un Gesù nudo di fronte alla storia” (quello che, al colmo del dolore e della disperazione, urla “Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?”), ma un Gesù al limite del mito, serenamente abbandonato al volere divino. Il “mantello consolatorio della teologia” sdrammatizza e toglie autenticità alla vicenda, “e la morte viene resa più aderente al disegno provvidenziale”. Anche l’ormai iconico episodio del bacio di Giuda, che vede Gesù vittima di un ingiusto tradimento, è secondo Augias contraddittorio: come “novello Adamo”, Gesù riscatta il peccato originale, ed è necessario che qualcuno lo aiuti a sacrificarsi perché si compia il volere divino.

Dopo mezz’ora di intervento, Augias ascolta le domande del pubblico. Quando gli viene chiesto perché, da ateo, si sia impegnato nella ricerca di una risposta agli interrogativi sulla figura di Gesù, risponde semplicemente che “ateo” non è sinonimo di “non credente”: “è la ritualità della religione – dice – a spegnere la forza della fede.” E quando, dalle prime file, qualcuno chiede quale ruolo può ancora ricoprire il personaggio di Gesù nell’attuale contesto di crisi e sfiducia, Augias si sofferma su un particolare. Quella del “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” è una morale in negativo: limitiamoci a non nuocere agli altri. Gesù, invece, ha predicato una morale in positivo“fai agli altri tutto ciò che vorresti fosse fatto a te.” Questo, pensa Augias, basterebbe a rispondere a questa e a tante altre domande.

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