Dal colore bianco, vitreo, sono lucenti se i raggi del sole colpiscono la superficie di queste piccole sfere. Non parliamo di perle per costosi gioielli, ma di un prodotto delle terre di Treviso: il mais Biancoperla.

Importato verso la metà del Cinquecento, il mais (a differenza di altre colture americane come il pomodoro e la patata) venne integrato da subito nelle province venete di Padova, Venezia e in particolare Treviso. Sostituì le principali coltivazioni di sorgo e miglio molto diffuse nell’agricoltura e soprattutto nell’alimentazione del XVI secolo trevigiano. Per le sue caratteristiche fisiche divenne un simbolo di raffinatezza nella cucina padana: l’uso principale di questa coltura era la produzione della farina, incredibilmente fine, dalla consistenza impalpabile invidiata dalle province confinanti dove si produceva una farina di colore giallo e molto grezza.
Negli anni ’60-’70 del Novecento con l’importazione sempre più considerevole di tipologie ibride di mais, questa varietà vide quasi l’estinzione. Solo negli ultimi decenni, in particolare con il presidio Slow Food e la collaborazione di alcuni agricoltori legati alla tradizione contadina e a vecchi racconti di una farina di altissima qualità, la coltivazione di questa particolare pianta ha avuto una ripresa.

L’epicentro della diffusione rimane la provincia di Treviso da dove si diffondono le tecniche di coltura di questa pianta delicata. La semina è prevista nel mese di aprile mentre la mietitura si estende dalla fine di agosto e per buona parte del mese di settembre.
Il mais richiede una coltivazione ad isolamento spaziale o temporale: ciò significa che nelle zone circostanti rispetto i campi seminati a Biancoperla non devono esserci altre varietà di mais. In alternativa la semina deve essere anticipata di un mese e mezzo rispetto alle tipologie più diffuse. La pianta trevigiana è auto-fecondante e una semina ravvicinata con altre varietà di mais provocherebbe una ibridazione e una perdita di qualità. La resa per ettaro è molto ridotta rispetto alle varietà moderne coltivate nelle campagne venete (si parla all’incirca della metà). La qualità della farina prodotta è tuttavia molto elevata.

Dai chicchi perlacei della pannocchia si ricava quindi la farina impiegata nel prodotto tipico per eccellenza del Nord Italia, che ha dato vita al soprannome “polentoni”. In particolare la polenta bianca di Treviso è particolarmente apprezzata per il gusto delicato e le proprietà nutritive che contiene. Viene abbinata a numerosi piatti tipici veneti: tra i più conosciuti ricordiamo “poenta e osei” e “poenta e speo”. È usata anche come base per alcuni dolci: tra i tanti citiamo la pinza (dolce popolare molto ricco fatto con gli avanzi e oggi codificato in una ricetta approssimativa diffuso nel periodo dell’Epifania accompagnata dal vin brulé).

Se i chicchi sono l’elemento principe di questa coltura, non dobbiamo scordare i cosiddetti elementi di scarto come le canne, il “botolo” o l’involucro della pannocchia vera e propria. Le canne sono impiegate in alcuni zone del Veneto per la costruzione del pan e vin, festa pagana convertita in cristiana in corrispondenza dell’Epifania. I botoli sono utilizzati come materiale combustibile al posto della carbonella. “El scartoz” un tempo era l’imbottitura dei materassi nelle case contadine.

Un’ultima precisazione è dovuta: se passeggiando nella campagna trevigiana vi capita di udire un contadino dire il termine “poenta” ricordate sempre che si riferisce alla pianta!

immagine tratta da: www.taccuinistorici.it

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