Che l’Italia sia la culla del fascismo è ben noto: Mussolini, la Marcia su Roma, le “Leggi fascistissime”, i Patti lateranensi, la guerra in Abissinia, il Patto d’acciaio, l’entrata in guerra al fianco di Hitler, l’Asse Roma- Berlino- Tokyo, il 25 luglio 1943, Salò, e il 25 aprile 1945 sono tutti eventi cardine e fondamentali dell’epopea di quello che è riassunto col nome di Ventennio. Ma la storia del fascismo non è nulla senza le varie vicissitudini locali che portarono il movimento e l’ideologia a diffondersi in tutto il Paese. Vicende particolari, certo, ma che analizzate una ad una rendono quei momenti più vicini a noi.

Nel 1920 l’Italia aveva appena superato uno dei momenti più critici della sua storia, il Biennio rosso, e in diverse località del Nord-Est le cellule del Movimento dei Fasci di combattimento, nato neanche un anno prima, cominciavano a muovere i primi passi. Dinnanzi all’intransigenza della classe operaia, i fascisti si prestavano a tutelare gli interessi degli agrari e degli industriali rendendosi quel braccio armato che queste due categorie prima non possedevano. Era quindi logico che costoro si muovessero non solo contro gli operai ma anche contro i cattolici, (che perseguivano più o meno gli stessi fini dei socialisti ma con modalità diverse) creando azioni di disturbo in quei luoghi dove l’industria aveva degli interessi padronali da tutelare.

Pordenone, 1 novembre 1920. Una ventina di uomini si riuniscono assieme al mutilato di guerra Leo Puiatti e fondano il Fascio pordenonese.  Qualche mese dopo, alla vigilia delle elezioni del maggio 1921, cominciarono ad arrivare in città le prime squadre fasciste armate, provenienti non solo dal resto della regione ma anche dal Veneto e dall’Emilia. Assurgendo a controllori della quiete pubblica al posto dei carabinieri, esse volevano dimostrare di non essere buone solo a parole, opponendosi fisicamente contro qualunque tipo di contestazione e stroncando brutalmente qualunque tipo di dissidenza.

La prima violenza si verificò l’8 maggio a Borgomeduna. Partito da un’abitazione, all’arrivo di un camion carico di passeggeri in camicia nera, un fischio di dileggio, i fascisti non esitarono ad agire: scesi dal mezzo, entrarono nella casa, fracassarono tutti i mobili e percossero brutalmente gli inquilini. Secondo la loro logica, costoro erano dei dissidenti e dovevano essere puniti poiché non vi doveva essere dissenso alcuno nei loro confronti. Il quartiere di allora non era popoloso ed esteso come lo è oggi ma la voce di queste violenze si diffuse in brevissimo tempo: prima che i fascisti potessero essersene andati vennero circondati e malmenati da contadini e operai sopraggiunti sul posto per dar man forte agli abitanti della casa. Le camicie nere risalirono quindi in fretta e furia sul camion e se la filarono.

Era solo l’inizio, sarebbero tornati. la mattina del giorno dopo, arrivati con un treno da Udine, i fascisti si radunarono davanti al negozio del consigliere comunale socialista, Romano Sacilotto, come atto d’intimidazione. Nel pomeriggio si spostarono davanti al cotonificio Amman, sull’attuale Viale Martelli, per bloccare l’uscita degli operai intenzionati a partecipare a una manifestazione sindacale indetta in Piazza Cavour. Lo scontro fu violento: nella calca perse la vita un giovane fascista, lo studente Pio Pischiutta, ucciso da una pallottola vagante sparata da un suo commilitone e probabilmente destinata ad uno degli operai. Seguirono altri incidenti, finché i fascisti decisero di andarsene.

A seguito dell’evento, le promesse del sindaco socialista di Pordenone, Guido Rosso, che i fascisti sarebbero stati tenuti sotto controllo non riuscirono a ristabilire la calma tra la popolazione e i lavoratori: le camicie nere non avrebbero accettato alcun blocco da parte di un’autorità costituita, men che meno da parte di un esponente socialista. L’insegnante, nonché consigliere comunale, Pietro Sartor, organizzatore della manifestazione sindacale, non fidandosi dell’annuncio del sindaco, riteneva che non fosse opportuno che gli operai stessero a guardare e si preparò ad affrontare i fascisti laddove avrebbero probabilmente colpito di lì a poco: Torre.

Sartor sapeva come essi agivano: come briganti arrivavano, distruggevano e vandalizzavano le strutture che prendevano di mira, bastonavano i presenti facendo loro bere olio di ricino e se la filavano. Non si sarebbero mai aspettati una resistenza organizzata. Seguendo questa linea egli organizzò nella zona di San Valentino delle barricate e, grazie al contributo degli abitanti dei dintorni e di alcuni soldati, riuscì ad armare di fucile gli operai organizzati a presidio della strada. All’arrivo dei fascisti vi fu un duro scontro a fuoco che, come previsto, li costrinse alla ritirata.

Nonostante la vittoria tutti sapevano che sarebbero tornati. Il parroco di Torre, don Lozer, era un pacifista e mal tollerava le violenze, che provenissero dai fascisti o dagli operai. Venuto a sapere del ritorno il giorno dopo di un nuovo camion fascista accompagnato dai militari dell’esercito, Lozer inviò un messaggio a Sartor chiedendogli di scongiurare il probabile spargimento di sangue che ci sarebbe stato: un conto era respingere le squadracce, un altro far fronte a un reparto dell’esercito.

Tra il 10 e il 12 maggio Pordenone venne totalmente occupata dalle camicie nere. Esse erano dappertutto, arrivando persino a distruggere la casa del sindaco. Davanti all’Amman vi era un presidio che perquisiva uno a uno gli operai che entravano in fabbrica per il turno lavorativo. Qualora avessero trovato una tessera o un simbolo di un movimento politico o sindacale a loro avverso, portavano il malcapitato in piazza Municipio, lo bastonavano e gli facevano bere olio di ricino. Nonostante tutte queste violenze a Torre continuavano a non metterci piede, non sapendo come fronteggiare le barricate degli operai.

Il 12 pomeriggio però lungo la via presidiata dagli uomini di Sartor fece capolino, come predetto da don Lozer, il reparto del IV Genova cavalleria proveniente da Sacile, accompagnato da un gruppo di Alpini. L’ufficiale al comando tentò di negoziare con gli operai lo sgombero della strada con la promessa che l’esercito, una volta tolte le barricate, avrebbe garantito che i fascisti non sarebbero entrati a Torre. Dopo una piccola discussione tra loro, gli operai acconsentirono e, seguendo il consiglio di don Lozer, consegnarono quasi tutte le armi ai militari. La strada per Torre ora era libera e il reparto militare, a garanzia, poneva sul campanile una mitragliatrice.

Al calar del sole però i fascisti irruppero comunque nel borgo. Sartor venne arrestato dai carabinieri e Torre divenne un autentico campo di battaglia. Privati del loro comandante gli operai si calmarono e decisero di attuare una strategia di resistenza passiva. A scontri conclusi i fascisti, come spedizione punitiva, nel tentativo di farla pagare a chi si era loro opposto, entrarono nelle case dei capi operai ma trovarono solo donne e bambini. I giorni successivi furono caratterizzati dalla messa in pratica di quanto i lavoratori dei cotonifici si erano proposti di fare: uno sciopero generale a cui seguì, non senza difficoltà, domenica 17 maggio, l’elezione a deputato di un esponente socialista, Giuseppe Ellero.

Nonostante tutte le violenze, i fascisti non erano riusciti nell’intento di intimidire la popolazione e, almeno per il momento, a vincere era ancora la democrazia. Ma per quanto tempo ancora?

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Sintesi tratta da:

Teresina Degan, Barricate antifasciste a Torre di Pordenone. 10-11 maggio 1921, Comune di Pordenone, Pordenone 1977.

Approfondimenti:

Mario Lizzero, Gloriose battaglie antifasciste: Le barricate di Torre del 1921: lo sciopero di Pordenone del 1928, Arti Grafiche fratelli Cosarini, Pordenone 1958.

“Varie memorie delle lotte dei lavoratori del Pordenonese”: un inedito di Costante Masutti.

 

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