Le mie esigenze erano elementari. Non badavo granché a tematiche o felicità di stile, e saltavo le descrizioni minute di tempo atmosferico, paesaggi e interni. Volevo personaggi in cui potessi credere, e volevo provare curiosità per ciò che avrebbero vissuto. In genere prediligevo quando la gente si innamorava e disamorava, ma nemmeno disdegnavo che si cimentasse con altro. […] Leggevo qualunque cosa mi capitasse a tiro. Romanzi a sensazione, alta letteratura e tutto ciò che stava nel mezzo: a ognuno riservavo lo stesso rude trattamento.”

Quella di Serena Frome, figlia della borghesia inglese e mediocre studentessa di matematica a Cambridge, è una voce controversa dalla prima riga: si appropria dell’attenzione del lettore dosando minuziosamente sordo cinismo e sentimentalismi spiccioli, quieta passività e disarmante tormento interiore. Lettrice onnivora e superficiale, di uno snobismo vagamente suggerito tra le righe, approda all’MI5 grazie alla raccomandazione di un amante, Tony Canning, anziano professore universitario, che la abbandona senza spiegazioni dopo un’estate di idilli destinati a spezzarsi. Con freddezza e rassegnazione (dietro la quale si nasconde una personalità sfuggente e perennemente alla ricerca di approvazione), Serena accetta l’impiego anche quando le viene offerto un posto al grado più basso della gerarchia.

La crisi del Regno Unito durante la Guerra fredda passa costantemente attraverso il filtro della sua voce, a tratti così monocorde da risultare fastidiosa: sono gli anni di Heath e di Wilson, della Provisional IRA e del terrorismo irlandese, della settimana di tre giorni, del progressive rock, di una lotta ideologica ormai esauritasi, che sopravvive perché fine a se stessa. Quando le viene offerto un incarico in un’operazione di intelligence di basso profilo, che mira a finanziare scrittori emergenti per convertirli alla causa dell’Occidente in funzione antisovietica, Serena accetta di reclutare un giovane autore di racconti, Tom Haley: ingenuo e privo di esperienza, ma di acume brillante sulla carta, accetterà il denaro offertogli senza sospettare nulla. Quando la storia e i sentimenti irrompono nel loro rapporto, la copertura di Serena è appesa a un filo: divisa tra un affetto sincero e le costanti pressioni del “terzo piano” (l’operazione Miele non è abbastanza importante da raggiungere il quinto), ingannerà prima di tutto se stessa, portando avanti un gioco pericoloso e potenzialmente deleterio.

La scrittura di McEwan, vero genio narrativo, è brillante e corposa; dà forma e vita a personaggi e situazioni talmente concreti da sembrare palpabili, riuscendo perfettamente nella stesura di un romanzo, di fatto, privo di eroi e veri protagonisti. Così come in Espiazione (2001), l’ambiguità e la contraddittorietà dell’ umano vengono messi brutalmente in luce; il protagonista è un antieroe difficile da odiare, che si misura costantemente con le proprie colpe e le proprie insicurezze, all’interno di un contesto che non lascia alcuno spazio a soggettivismi. Lo stile luminoso e il finale inaspettato, in cui di fatto si concretizza tutto il senso del romanzo, fanno da base ad un racconto che non finirà mai di dire quello che ha da dire, e che costringe il lettore a radicali e continui cambiamenti di prospettiva.

Miele, Ian McEwan – 2012, Einaudi – 368 pagine

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