“…vorrei parlarti, mio unico amico, parlare solo a te

che sei entrato nel tremendo e hai camminato

sul filo delle grondaie, nella torsione muscolare

delle cento notti insonni, e ti sei salvato

per un niente… e io adesso ti rifiuto

e ti amo, come si ama un seme fecondo e disperato”

(Milo De Angelis, Incontri e agguati, Mondadori 2015)

 

Poesia non è necessariamente tutto. Poesia è un linguaggio e una forma prima ancora di essere contenuto, è una modalità di espressione che può funzionare o essere inefficace. Poesia non è solo pensieri intelligenti messi a capo, ma necessita di suono, di un giocare con l’ordine delle parole, di un ritmo, un respiro che dia il senso di una poetica, di uno scrivere, di una persona. Geometria che sa far piangere, un senso ordinato di confusione.

Incontri e agguati (Mondadori 2015), l’ultimo lavoro poetico di Milo De Angelis, è una raccolta dal respiro lungo che alita sul collo ma resta morbido, che si domanda, si pone in attesa. Un fare poesia che è un lungo dialogo, un rapportarsi solitario con la parola, in un legame univoco, uno a uno, fino alla fine, fino al non esaurirsi della necessità razionale di comprendere. Una parola che De Angelis, in questa silloge, usa netta, precisa, tagliata: non utilizza perifrasi per dare forma a immagini ma nomina le cose, chiama il passato, lascia, non senza difficoltà, avanzare la morte.

Una raccolta divisa in tre sezioni, in tre momenti che collaborano e dialogano nel dare il senso di una colpa, una mancata innocenza, un peccato verso gli uomini, verso chi si è cercato di amare, che diventa una condizione esistenziale che il poeta descrive come: “è di tutti la splendida uccisa, la sorridente,/cammina nei corridoi, dea o spettro, cantico/ del grande zafferano(…)” oppure “ il nome, il nome, il nome./(…) ci pretende, ci attende, ci chiede/ la parola e la protegge nel silenzio dei pioppeti.”

Il primo gruppo di componimenti si pone come un lungo canto di amicizia, incomprensione, necessaria e terribile convivenza con il finito, il culmine, il limite delle cose e della vita, proprio quel senso del limite che si percepisce anche nella compattezza e nettezza dei versi di De Angelis, della sua parola così dura e sintetica ma nel contempo calda, simbolica ed evocativa, quasi mitica. Un canto spezzato in più poesie che si inseguono e che restituiscono un percorso a tappe di una progressiva, avvenuta, consapevolezza.

La seconda parte si presenta come un ritratto di memorie, di persone riviste ed esaminate attraverso l’io lirico del poeta che ha attraversato la vita, che ha dimenticato, ferito, ucciso, ma che ancora resta, come le persone (gli amici e non di un tempo) delle sue poesie, a dare testimonianza, a essere unità di misura di un salvarsi per un niente. Forse è questo il momento più bello e riuscito della raccolta, in cui la tensione espressiva del poeta riesce a esprimersi in versi spiazzanti nella loro bellezza come “ il tempo era il mio unico compagno/ e tra quelle anime inascoltate/ vidi te che camminavi/ sulla linea dei comignoli/ ti aprivi le vene/ tra un grammo e un altro grammo/ bisbigliavi l’inno dei corpi perduti/ nel turno di notte/ dicevi cercatemi/ cercatemi sotto le parole e avevi/ una gonna azzurra e un viso/ sbagliato e sulla tua mano/ scrutavi una linea sola e il nulla/ iniziò a prendere forma.”

La terza sezione, infine, restituisce ed esplica il senso dell’intero lavoro, prima attraverso le parole e la citazione di Oscar Wilde, poi prendendo spunto e motivo di scrittura dall’esperienza dell’insegnamento nelle carceri di massima sicurezza, attività a cui De Angelis si dedica da molto tempo. Così la condizione umana diventa prigionia, diventa un sentirsi disperatamente in colpa e non saperne parlare, si trasforma in profonda solitudine dell’abisso, nella memoria e nella malinconia dei ricordi, nell’impossibilità di amare e voler bene senza ferire e provocare dolore.

Un libro, insomma, che, per ora, si colloca come il più recente e ultimo momento poetico di uno scrivere bellissimo, inteso e necessario come è stato, fin dagli inizi negli anni settanta, l’itinerario poetico di Milo De Angelis, uno scrivere umano e di affetti, di persone e non di idee, di sofferenza quotidiana analizzata con lucidità, con la razionalità mai vinta di uno scienziato e l’amore disperato di un uomo prima ancora che di un poeta.