Ora mi rendo conto di come l’attività del viaggiatore non sia troppo differente da quella di uno scalpellino che debba costruire due ponti con la medesima calce. La distanza da colmare non è tra anse di fiumi, ma quella tra me e gli altri del mondo, popoli che non ho ancora conosciuto ma da cui già mi sento minacciato, e quella con gli altri di casa, le maschere di paese che mi ricordano una brezza che si muove sempre ma sempre resta dove sta.

Provo un senso di insicurezza, a volte perfino di paura nel trovarmi in solitudine e lontano, nell’essere consapevole di non poter contare su altro aiuto che la mia testa e la benevolenza di uomini sconosciuti: ascoltare le loro storie diventa insieme necessità e piacere. Quella della ragazza che sospira, disoccupata, e offre il suo tempo come volontaria in una township a sud di Johannesburg. Della guida di safari che mi canzona per quanto mi abbia spaventato il ruggito di un leone lontano. Del senzatetto che mi offre un abbraccio gratuito al mercato del pesce di una città sul Pacifico del Nord. Allora non vedo più la malinconia nella ragazza, la miseria nella guida o la solitudine nel senzatetto: ascolto il suono delle loro storie, sembra quello di uno scalpellino al lavoro sul primo ponte.
Più tardi, tornato a casa, mi capita certamente di trovare la stessa volontaria di Johannesburg in un’impiegata di una cooperativa sociale per disabili, i suoi occhi bassi sul parquet sono uguali a quelli che fissavano un pavimento in terra battuta; di riconoscere la stessa guida di safari in un guardacaccia della bassa friulana, già ho sentito le parole di riverenza per il fagiano e la lepre in riferimento al leopardo e all’elefante; di ringraziare lo stesso senzatetto in un uomo che mi aiuta con la catena della bicicletta, le loro mani sembrano ruvide della stessa geografia di nodi e calli. Lo scalpellino mi avvisa, ha finito anche il secondo ponte. Il confine di casa si allarga ora fino alle coste estreme dei continenti, le mura del mondo si ritirano su quelle di una sala da tè.

Negli ultimi mesi ho studiato. Ma accanto ai tomi di Meccanica Razionale ed Elettrotecnica ho tenuto i volumi essenziali alla preparazione di questo viaggio che, nonostante non sia il primo, profuma di iniziazione. Sopra le letture asettiche di teoremi e corollari ho impilato una bibliografia di storie umane – false a volte, riduttive altre: le storie degli uomini protagonisti delle esequie jugoslave.
Come un compìto studente di relazioni internazionali ho mandato a memoria date (undici-luglio-millenovecentonovantacinque), accordi di pace (Dayton), assedi (Vukovar), battaglie (Knin), nomi di eroi e nomi di farabutti. Più di un compìto studente di relazioni internazionali, nel tempo libero ho fissato i Balcani con Emir Kusturica il regista, ascoltati con Paolo Rumiz il reporter, ricordati con Andrić il romanziere epico: ora viaggerò in loro compagnia. Quando la lasciavo libera, la mia mente veniva trascinata con l’inerzia di una barchetta di carta nella corrente del torrente di novembre.
Lo studio di ingegneria ha rischiato la forca. Non potevo più sopportare gli sfarzi che si permette col mio tempo – più che monopolizzandolo: tiranneggiandolo. Ma Luigi Capeto si è salvato. Il popolo parigino, riunito in consesso, ha deciso di prolungare la vita del tiranno. Sopra alla carestia e alle ruberie hanno prevalso lo spirito tignoso del contado e la consapevolezza che una rivoluzione non s’innesca per esasperazione, ma per sopraggiunta superiorità morale. Luglio 1786, segna il calendario: ai Giacobini della mia volontà mancano tre anni, allo studente IN0500114 meno, basteranno tre esami.

L’autobus parte in perfetto orario, attraversa le vie che normalmente mi portano in università e che ricordano gli appelli non superati, le lezioni a cui sono arrivato in ritardo, la montatura degli occhiali del solito compagno di corso che capisce ogni dimostrazione di Analisi II mezz’ora prima del resto di noialtri e nel tempo che gli avanza s’inventa nuovi teoremi. Ma sono considerazioni e rimpianti che occupano poche righe nella memoria. Alla svolta dopo l’università qualcosa sembra essere già mutato, devo aver avvertito il calare della pressione atmosferica. I polmoni raggiungono nuove capacità, si sono fatti distilleria. L’umidità della vita di uno studente fuori corso si sta condensando in gocce che, accumulandosi come in una “questione di grondaie”, mi liberano da un Danubio di fisime: che esami darò a settembre – pluff!; la macchina fotografica non arriva, forse dovrò posticipare la partenza – pluff, pluff!; devo trovare un posto in cui dormire stanotte – pluff! pluff! pluff!. Il ruscello scende dalla vicina Basovizza, si fa torrente e supera l’università, diventa fiume, foce nel bel golfo che dall’alto sembra sempre immobile; alzerà il suo livello forse di un centimetro. Ma ormai è solo un affare tra i clanfisti di Barcola e gli innamorati che tubano sugli scalini in Molo Audace, io non penso ad altro che ai Balcani.

Sono,

finalmente,

in viaggio.

Trieste, 20 luglio 2016

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