Il canto delle otto cala dal minareto della moschea in uno scialle di taffetà. Mi trovo a Baščaršija, il perno etnico e religioso della Bosnia musulmana, dove la piazza intorno alla fontana di Sebilj ribolle di persone quante non mi era ancora capitato di vedere da quando sono a Sarajevo. Eppure, nessuno sembra voler prestar orecchio al proprio muezzin, questa sera: forse, penso, è questo il sintomo della celebre moderazione religiosa dei musulmani bosniaci. I dintorni di Sebilj sono però agitati da un amperaggio insolito: uomini e donne di ogni estrazione sociale e anagrafica mostrano magliette sature dei colori di Bosnia e Turchia, nugoli di venditori ambulanti smerciano bandierine commemorative, una sorridente ragazza in hijab dagli occhi di cuoio mi offre una bottiglia d’acqua fresca.
Non passa troppo tempo prima che capisca: quella di questa sera sarà una prova del sostegno che, dopo il fallito golpe di luglio, il Presidente turco Erdoğan può esercitare sulla comunità dei bosniaci musulmani.

_DSF1916Attivista mostra le bandiere di Turchia e Bosnia

Secondo l’atteso – e contestatissimo dai serbo-bosniaci – censimento del 2013, Sarajevo conta più di 200 mila abitanti di religione musulmana: poca cosa, allora, il paio di migliaia di persone che hanno partecipato alla manifestazione. Tuttavia la grande cura con cui è stata organizzata, l’enorme maxischermo che stucca le retine di un parlamento stretto attorno al proprio Presidente, le bandiere turche affisse sulle vetrine dei vicini esercizi commerciali, gli striscioni gravi di effigi e la presenza delle autorità religiose della vicina moschea raccontano di una manifestazione promossa dai quadri religiosi e della volontà politica di rafforzare l’immagine del Presidente turco nel panorama identitario dei musulmani bosniaci.
Può sembrare strano immaginare il colore del filo che collega Sarajevo ad Istanbul in 900 chilometri. Ma basta un vecchio dentro la sua piccola bottega mentre intarsia una coppa in rame, un sorso troppo affrettato di caffè che riempie il palato di polvere limacciosa, la nebbia di agnello che erutta dai ristoranti di Baščaršija al primo imbrunire: allora la Miljacka pare lo stretto del Bosforo, Markale il Gran Bazar e ogni angolo vuole nascondere la Moschea Blu. Tutto parla di Oriente mentre i Balcani sono alle spalle, passati senza lasciare indizio di sé. Le tracce ottomane, ora luminose, si confondono tra la Storia dell’Impero e le considerazioni geopolitiche di Ankara.

La Storia vuole che gli ottomani abbiano conquistato la Bosnia, in quel momento scossa da gravi tensioni politiche e sociali, poco oltre la seconda metà del XV secolo. Durante i quattro secoli in cui fu provincia dell’Impero venne sempre considerata la testa di ponte per il cuore dell’Europa e quindi tenuta in grande considerazione da sultani e gran visir, che promossero l’innesto della cultura e della religione ottomane attraverso grandi sforzi. A quei quattrocento anni, infatti, si deve un gran numero delle bellezze architettoniche del Paese: il ponte sulla Drina di Andrić e quello sulla Neretva a Mostar, il germe di mercato che sarebbe poi diventato la capitale, moschee e scuole coraniche. Tutto sembrava studiato in un enorme piano politico-urbanistico volto a ricordare quanto potesse elevarsi in terra e in cielo, quel grande ed eterno Impero Ottomano.
Con quale nostalgia deve mostrarsi, quella Sublime Porta, ai papaveri del governo turco di oggi! Chissà in quali appartate ore della notte mandano la mente a Solimano il Magnifico! Visioni celesti che tornano, oggi, nell’orizzonte di Ankara: la Turchia ha avviato da un decennio un nuovo ciclo nella propria politica estera, stampata di una vivace espansione commerciale, diplomatica e culturale finalizzata a stringere i rapporti tra Ankara e i Paesi compresi tra Balcani e Vicino Oriente. Questa sorta di neo-ottomanesimo ha avuto come principale sponsor l’ex premier Ahmet Davutoğlu, e con la complicità involontaria degli scossoni egiziani la Turchia pare ormai inchiodata al ruolo di prima potenza tra i Paesi del Mediterraneo orientale.
La Bosnia non fa eccezione: nonostante il bacino commerciale non suggerisca la possibilità di grandi interessi economici nella zona, la guerra dei primi anni ’90 ha lasciato un vuoto nella faccia musulmana dell’identità nazionale bosniaca che ha permesso alla Turchia un fortissimo avvicinamento con l’elite religiosa della Federazione.

_DSF1906-2Una famiglia bosniaca durante la manifestazione a supporto del governo turco

In questo senso il caso di Ferhadija, la moschea di Banja Luka, è paradigmatico: perfetto esempio dell’abilità degli architetti ottomani, fu costruita nel XVI secolo per volere del Bay Ferhat-paša Sokolović e grazie al riscatto che gli Asburgo avrebbero pagato per avere indietro la testa del generale Herbard III von Auersperg, persa in battaglia. Quando sono riuscito a visitarla, due giorni fa, ho scoperto una piccola leggenda popolare che gira attorno alla costruzione. Si dice che la progettazione venne affidata a un allievo del grande architetto imperiale Mimar Sinan, e la sua edificazione ai migliori scalpellini e muratori che si potessero trovare tra Algeri e Baku: il risultato commosse il Bay e ne colmò il cuore con quella sensazione di caducità che si può percepire solo in rapporto alle più grande opere dell’ingegno umano. Con le lacrime agli occhi, stabilì che quella sarebbe stata la migliore moschea che l’Uomo potesse donare ad Allah e fece murare vivi gli scalpellini nel minareto affinché non potessero più ripetersi, ma questi furono benedetti con un paio di ali e riuscirono a volare alla salvezza.
È ascoltando queste piccole, sconosciute leggende mi sento davvero in armonia con la comunità che le ha partorite: le date sono ben note e a volte superflue. Ma è quando ho saputo della sorte degli scalpellini che mi pare di essere stato più vicino ai bosniaci e di aver compreso quel nocciolo di identità ancestrale: se fossero state genti dalla schiena curva, davvero la tradizione popolare non avrebbe graziato quei poveretti della leggenda! La loro salvezza, invece, è la mia comprensione e in un attimo mi pare di aver schiuso il dolce della personalità di questi uomini: la costruzione della moschea si deve alla saggezza dei governanti, la sua magnificenza all’abilità degli artisti; la cattività degli scalpellini testimonia la corrosione che il potere esercita sull’animo umano, mentre la fuga è sinonimo di benevolenza divina, di riscatto degli ultimi, di disobbedienza a volte necessaria. Sono storie che ci ricordano il tempo dei primi viaggi, quelli che affrontiamo da piccoli con le letture di Salgari, Stevenson e Marco Polo; ci aprono le porte di un mondo altrove e che suona di nomi antichi e musicali di città sconosciute: Samarcanda, Timbuktu, Mompracem.

La moschea di Ferhadija fu demolita il 7 maggio 1993 per ordine delle autorità della Republika Srpska: nonostante Sarajevo fosse sotto un asfissiante assedio ormai da un anno, l’opinione pubblica ne fu scossa a tal punto che fu deciso di istituire per quella data la giornata nazionale delle moschee. Il primo tentativo di ricostruzione è del 2001. In quell’occasione, un gruppo di almeno mille nazionalisti serbi attaccò i partecipanti alla posa della prima pietra – bruciarono autobus, macchine, la bandiera del vicino centro islamico e assediarono l’edificio, in cui si erano rifugiate 250 persone. “Questa è Serbia, non vogliamo moschee” gridavano in cori da stadio.
La riedificazione fu quindi rimandata e posticipata moltissime volte, e ha finito per concludersi solo il 7 maggio di quest’anno. I lavori hanno permesso alla capitale serbo-bosniaca di ospitare qualcosa d’altro che palazzoni di cemento e tangenziali sovradimensionate: ancora una volta, grazie all’intervento finanziario di Ankara. Il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, il cui mandato governativo si sarebbe esaurito dopo una manciata di giorni, scelse comunque di essere presente all’inaugurazione che ha visto anche una massiccia presenza di forze dell’ordine, chiamate per scongiurare azioni squadriste come quelle di 15 anni fa.

_DSF1531Moschea di Ferhadija, Banja Luka

Il colore di quel filo che, attraverso Serbia e Bulgaria, lega Ankara a Sarajevo è dunque quello degli interessi politici: lo scorso dicembre, durante una visita istituzionale culminata con un trionfale bagno di folla, il Presidente turco ha ribadito la sua determinazione a “proseguire e saldare le relazioni in tutti i campi, inclusi quello politico, economico, commerciale e militare”. La visita ha coinciso con una fase politica delicata per il Partito d’Azione Democratica, che sembrava sul punto di disarcionare Bakir Izetbegović: gli interventi entusiasti e le promesse di Erdoğan furono però decisivi a ribaltare la situazione, perchè alla fine la fumata fu nera e Izetbegović rimase in sella.

_DSF1914Una bandiera turca e, in secondo piano, un manifestante che appende uno striscione sulla fontana di Sebilj

Prendo il cammino verso l’ostello dopo aver partecipato – sì, ho partecipato anche io – ad una manifestazione colorata, vivace, che esprimeva l’entusiasmo di classe media, famiglie e ragazzi come me. Ci sono stati degli istanti in cui mi sono sentito davvero dentro gli accadimenti di questa sera, ma non ho mai fallito di ricordare che il leader putativo di queste persone è uno che in pochi giorni ha avviato una serie colossale di purghe, arrestato migliaia di persone. Non solo militari accusati di aver partecipato al grottesco putsch di luglio ma professori e studenti, giornalisti, attivisti, una reginetta di bellezza. Quale allora il motivo di quest’entusiasmo? Si può comprendere che, visti dal di fuori, i governi sembrino o molto peggiori o – come in questo caso – molto migliori di come realmente sono. Ma la cordialità tra gli esecutivi dei due Paesi è tale da immaginare che, certe notizie poco lusinghiere, siano merce rara in Bosnia?
Attraverso la Miljacka dal ponte di Gavrilo Princip e Francesco Ferdinando, arrampico i ripidi vicoli di Alifakovac, entro in ostello e mi butto sul letto: con gli occhi al soffitto, penso alla macchina della propaganda, all’abulica consolazione della logica del male minore e, negli strani viottoli che imbocca la mente quando si muove tra veglia e sonno, ai calli di calcestruzzo nei talloni degli anziani.

Sarajevo, 29 luglio 2016

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