Maggio 1918. La guerra ha portato talmente tanta stanchezza che molti sperano che le truppe austro-ungariche sfondino sul Piave perché “le altre province provino i nostri dolori!”. La popolazione ormai stremata non era più in grado di capire che se la guerra fosse proseguita ancora, avrebbe dovuto subire sempre più violenza da parte delle forze straniere perché, già abbastanza incattivite a causa del contesto bellico e del tradimento politico degli italiani, userebbero le province friulane come terra di sfogo dei militari a riposo aumentando così il numero delle violenze e delle ingiustizie commesse ai danni della popolazione locale.

Se una parte della popolazione spera nel proseguimento della guerra e del suo spostamento geopolitico per frustrazione, un’altra parte  spera che la guerra possa decidersi sul letto del Piave in favore degli italiani forti dell’arrivo di nuove truppe e convinti del sentimento di rivalsa che questi hanno nei confronti degli austriaci hanno avuto dopo Caporetto.
Dai diari di guerra e dai giornali originali, notiamo tre date decisive che hanno portato alla vittoria finale dell’esercito italiano:

19 giugno. Dal fronte giungono notizie contradditorie: il Piave è stato sfondato e nelle città friulane sono state issate le bandiere austriache, la popolazione è sgomentata e ha paura dell’arrivo di nuovi uomini dell’Imperatore.

26 giugno. L’Austria-Ungheria ammette la sconfitta della battaglia e viene ricacciata alla parte sinistra del Piave. Il letto del fiume è pieno di cadaveri.

Nei giornali datati 29 giugno leggiamo che il ministro della guerra austro-ungarico ha riconosciuto lo scacco subito e dice che l’esercito imperial-regio ha avuto 350 mila feriti e 150 mila morti sul Piave, annunciando così la vittoria italiana e la crisi militare degli imperi centrali. La maggioranza della popolazione friulano-veneta spera nella resa dell’esercito asburgico perché possa tornare finalmente la pace e iniziava a sperare nella vittoria italiana.

Nelle città in cui sono presenti i generali delle armate austriache, come ad esempio a San Vito al Tagliamento, gli intermediari della popolazione locale, semplici preti di campagna, provano a convincere gli alti ufficiali asburgici a fermare le requisizioni del bestiame rimanente alla popolazione che vive ormai una situazione di povertà e dove le risorse sono contate. I generali imperiali ascoltano gli intermediari e invitano la popolazione a riavviare i commerci. I prelati rispondono che i tre anni di guerra hanno fatto pulizia di tutto quello che può essere commerciabile e chiedono cosa l’esercito austriaco sarebbe disposto a dare alla popolazione per far ripartire l’economia locale. I generali offrono “Cartoline illustrate, chiodi e patina!” . I curati rispondono che le cartoline non si possono spedire, il cuoio per le scarpe è scadente o del tutto assente e sarebbe assurdo lucidare ciò che non esiste più e i chiodi in quel momento sono inutili.
Dopo il confronto, si viene poi a sapere che la situazione nell’esercito asburgico era peggiorata enormemente: la metà dei militari e almeno un quarto degli ufficiali austro-ungarici erano senza camicia: erano costretti infatti a portare petti e colli di carta. Una volta saputa la notizia, la popolazione italiana da loro ancora occupata, in attesa dell’imminente arrivo degli uomini del generale Armando Diaz intonava questo ritornello:

“Pane di paglia, vestiti di carta, monete di ferro,
povero impero, povero impero!”

 

 

 

 

FONTI E CITAZIONI DA “SOTTO I COLPI DEL FLAGELLO DELL’INVASIONE NEMICA
DON GIACOMO JOP,
DIARIO DI GUERRA CONSERVATO DA ANTONIO TONI SPAGNOL,
SAN GIOVANNI DI CASARSA DELLA DELIZIA

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