Non si riscontrava notizia nei quaranta volumi della storia universale, sia pur che si trattasse di un solo caso per campione, che fosse mai occorso un fenomeno simile, che trascorresse un giorno intero, con le sue prodighe ventiquattr’ore, senza che fosse intervenuto un decesso per malattia, una caduta mortale, un suicidio condotto a buon fine, niente di niente, zero spaccato.

E’ appena scoccata la mezzanotte del 31 dicembre quando, in un paese senza nome, si verifica un fatto assolutamente inaspettato: nessuno muore più. L’avvenimento non è sconvolgente solo agli occhi di chi, in una giornata ordinaria, sarebbe sicuramente e secondo ogni previsione passato a miglior vita, ma le conseguenze sono enormi anche per il resto della popolazione, che si troverà ben presto ingarbugliata nel paradosso dell’eternità e bloccata in un’ esistenza a tempo indeterminato.

 

La morte, al sicuro nel suo cappuccio nero e forte del proprio potere distruttore, non entrerà in scena finché, dopo otto mesi di sciopero, non deciderà di riprendere la propria regolare e primaria attività, alleviando finalmente le sofferenze dei malati e tornando a pendere sul capo indifeso di milioni di cittadini. C’è però una novità: d’ora in poi, una lettera viola segnalerà ad ognuno, con una settimana d’anticipo, che la fine, inesorabile, sta arrivando. Il lavoro procede regolare (anche se, a onor del vero, tra il panico sfrenato dei poveri mortali) finché, un giorno, una lettera indirizzata ad un violoncellista viene inspiegabilmente rispedita al mittente. La morte (che si firma solo ed esclusivamente con la minuscola) dovrà architettare un piano per reagire a un affronto senza precedenti, ricorrendo ad ogni mezzo (lecito o illecito) in suo possesso.

 

In un’ atmosfera dalle tinte fantastiche e surreali, l’improvviso sciopero della morte è una svolta non considerata, un inconveniente che mette a nudo tutta la fragilità dell’umano e di quella tragicommedia che in effetti, in mancanza di una fine certa e prestabilita, non potrebbe nemmeno chiamarsi vita. Crollano istituzioni e certezze millenarie, gruppi di teologi si agitano inutilmente alla ricerca di una soluzione che salvi almeno la facciata di una cristianità per la prima volta in pericolo, una burocrazia inerme è costretta a scendere a patti con associazioni a delinquere: ogni aspetto dell’esistenza come la conosciamo è capovolto, e un narratore in vena di leggerezze osserva il tutto dall’esterno, beffandosi dell’intera vicenda con acume e spontaneità. Si alternano momenti di satira tagliente a passaggi d’ intensità che, anche se non completamente definibile come “drammatica”, è certamente annientante. I goffi tentativi di rintracciare la morte, canaglia sfuggente e su cui molto si specula, sono ovviamente votati all’insuccesso: l’uomo moderno, pur nella sicurezza della propria superiorità rispetto ai propri antenati, è spietatamente deriso nella sua debolezza: tutto tecnologia e intuizione nel proprio immaginario, un puntino insignificante nell’immensità del cosmo.

 

L’assenza quasi totale di punteggiatura (se si escludono i punti e le virgole) fa dell’intero romanzo un perenne flusso di pensieri e fatti che si susseguono quasi senza sosta, sfrenati, in un circo di sensazioni, impressioni e scambi verbali che smorzano l’importanza di qualunque personaggio. I discorsi si srotolano in un caos indecifrabile (mancano, ahimè, anche le banali virgolette che segnalano normalmente la presenza di un discorso diretto), e l’intera storia, dall’inizio alla fine, è un groviglio corposo, a tratti difficile da districare, che scommette molto anche sulla sensibilità e l’attenzione del lettore stesso.

Piuttosto la morte, primo ministro, piuttosto la morte che una tale sorte:

Saramago immagina sarebbe questo il grido di un’umanità che, dopo l’oppressione del dogma del “vorrei ma non posso”, sperimenta il dramma dell’onnipotenza quasi assoluta. Un romanzo da leggere con attenzione, che nell’eliminare la più acerrima nemica dell’umanità ci mostra come, in realtà, il paradosso del finito sia di gran lunga preferibile all’enormità dell’infinito, ideale o concreto.

José Saramago, Le intermittenze della morte – 2005, Einaudi – 205 pagine

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