Il grande Gatsby potrebbe essere letto semplicemente coma una storia di intrighi amorosi, tradimenti, gelosie con drammatico finale. Ma non gli si renderebbe giustizia. Il lettore attento va oltre la descrizione dei ruggenti anni ’20, fatti di feste, belle macchine e ville favolose dove si balla fino alle prime luci del mattino. Va oltre anche l’ambientazione in una società borghese che appare senza altro ideale che quello di celebrare la propria borghesia. Supera gli indizi, qua e là seminati dall’autore, che suggeriscono una intricata storia passata che precede le vicende narrate nelle pagine del romanzo ma che resta fino alla fine poco chiara. Questo lettore attento arriva allora a cogliere la tragicità del personaggio che dà il titolo al romanzo, un uomo che vive l’amore come un sogno. Un sogno che, però, appena arrivi a toccarlo, anche solo con un dito, svanisce nel nulla.

Romanzo strano. Innanzitutto bisogna arrivare a pagina 50 (circa un quarto dell’intero romanzo) per vedere comparire Gatsby. Tutto quello che c’è prima è servito per presentare altri personaggi: Nick Carraway, la voce narrante, un giovane e rampante operatore della borsa di New York, la bella e capricciosa Daisy, il suo poco fedele marito Tom, la loro amica Jordan Baker, frivola e inafferrabile. Ma soprattutto per far crescere il desiderio di conoscere Jay Gatsby, quest’uomo così famoso e ricco, proprietario di una favolosa villa a West Egg. Un tipo sensibile e determinato, che ama mettersi in mostra ma ha un passato misterioso, organizza fantasmagoriche feste con centinaia di invitati ma ha pochissimi amici. Quando Nick lo conosce, durante una di queste feste, rimane colpito dal suo sorriso: 

era uno di quei sorrisi rari dotati di un eterno incoraggiamento, che si incontrano quattro o cinque volte nella vita. Affrontava –o pareva affrontare- l’intero eterno mondo per un attimo, e poi si concentrava sulla persona a cui era rivolto con un pregiudizio irresistibile a suo favore. La capiva esattamente fin dove voleva essere capita, credeva in lei come a lei sarebbe piaciuto credere in se stessa, e la assicurava di avere ricevuto da lei esattamente l’impressione che sperava di produrre nelle condizioni migliori. Esattamente a questo punto svaniva, e io mi trovavo di fronte a un giovane elegante che aveva superato da poco la trentina e la cui ricercatezza nel parlare rasentava l’assurdo.

E poi c’è un mondo in cui sembra che l’unico problema sia come riempire il tempo libero, passando dal salotto della casa di Tom e Daisy ai saloni delle ville al green dei campi da golf, sport in cui la signorina Jordan eccelle. In una società che sembra non lavorare mai, le esistenze di questi personaggi si intrecciano e Gatsby sta lì come sospeso in una strana aura, infatuato di Daisy, con un amore che è soprattutto desiderio trasognato, mentre intorno altri amori si consumano, quotidiani, dozzinali, formali. L’epilogo, piuttosto inatteso e truce, lascia un forte amaro in bocca. Nessuno di loro ha avuto quello che cercava, la ruota della vita continua a girare come se niente fosse, come se la storia divorasse ogni cosa senza pietà e nulla avesse senso. Come se ognuno desiderasse andare oltre il mondo materiale, verso un infinito che però è irraggiungibile.

La villa di Gatsby si affaccia su uno stretto braccio di mare, al di là del quale si vede la città. «Se non ci fosse la nebbia si vedrebbe la tua casa di là della baia» dice un giorno a Daisy dopo averle mostrato la sua dimora.

«C’è sempre una luce verde accesa tutta la notte all’estremità del tuo pontile». Daisy infilò bruscamente il braccio sotto quello di lui, ma Gatsby parve assorto in quello che aveva detto. Forse gli era venuto in mente che il significato colossale di quella luce era ormai finito per sempre. In confronto alla grande distanza che lo aveva separato da Daisy la luce era sembrata molto vicino a lei, come se la toccasse. Era sembrata vicina come una stella alla luna. Ora era di nuovo la luce verde di un pontile. Il numero degli oggetti fatati era diminuito di uno.

E anche la magnifica villa al di qua della baia, un tempo rutilante di luci, alla fine rimane buia e vuota, priva della magia effimera che l’aveva animata.

Il grande Gatsby ha reso grande Francis S. Fitzgerald, che in queste pagine ha raccontato un poco di sé, della sua passione per la bella vita, del suo amore complicato con Zelda Sayre, dei suoi sogni di successo a tratti frustrati, che forse spiegano la celebre chiusa, amara, del romanzo:

Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.

 

Articolo originariamente apparso su Cogito et volo, scritto da Guido Vassallo.

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