Pordenone è sempre stata la culla di menti eccellenti: passando da Antonio de’ Sacchis e Michelangelo Grigoletti, per arrivare ad Andrea Galvani e Lino Zanussi, non sono pochi quelli che, con il loro lavoro, hanno lasciato una traccia importante del loro passaggio.

Uno di questi è sicuramente Pietro Ellero: illustre maestro della scienza penalistica e, senza dubbio, uno dei più grandi giuristi del suo tempo.

Nacque a Pordenone nel 1833 da una delle famiglie più facoltose della città: questo gli permise di completare i suoi studi nella prestigiosa Università di Padova, dove fin dall’inizio si era contraddistinto per il suo acume e talento negli studi. Stiamo parlando, infatti, di un genio precocissimo, che alla sola età di venticinque anni pubblica il suo capolavoro assoluto: Della Pena Capitale.

Fu un vero e proprio terremoto. All’epoca vi era ancora un forte dibattito sulla pena di morte, e non erano molti quei sovrani “illuminati” che avevano rinunciato a questa extrema ratio nei propri ordinamenti.

Ellero, cresciuto in un ambiente cattolico, si pose in forte contrasto con questa pratica fin dagli inizi della sua carriera di giurista, e la campagna abolizionista fu il primo passo di una lunga battaglia che lo vide indiscusso protagonista. Questo suo primo libro, edito a Venezia nel 1859, quando il Lombardo-Veneto era ancora sotto l’Austria, gli costò l’incriminazione da parte della polizia austriaca per il reato di “perturbazione della pubblica tranquillità”. Assolto prima, condannato in Appello, trovò poi nella Corte Suprema di Giustizia un provvedimento di archiviazione dettato dall’opportunità di chiudere al più presto una vicenda che aveva suscitato così grande scalpore.

L’opera gli valse la medaglia d’oro del Re di Sardegna e la cittadinanza onoraria del suo regno, ma si attirò le inimicizie delle autorità austriache. Dopo che gli fu rifiutata per motivi politici la docenza presso l’ateneo patavino, Ellero insegnò prima a Milano e poi a Bologna, dove fu nominato nel 1861, a soli ventotto anni, professore di diritto e procedura penale.

Per Ellero gli anni bolognesi furono straordinari. Presso l’Alma Mater raggiunse quel notevole prestigio scientifico che meritava un intellettuale del suo calibro. Qui fondò e diresse nel 1862 Il Giornale per l’abolizione della pena di morte, che divenne un punto di riferimento per tutti quelli che auspicavano la fine della pena capitale, e L’Archivio Giuridico, altra sua grande impresa editoriale.

Riuscì a coordinare sforzi isolati, rendendo tangibile l’esistenza di una vera e propria corrente abolizionista italiana: i due periodici divennero così non solo un “luogo simbolico” di difesa del valore della persona umana, ma anche la fonte di attacchi al sistema penale vigente e di critiche costruttive.

Nei tre anni in cui fu direttore si guadagnò la stima e il rispetto di gran parte del mondo accademico e non solo: risalgono proprio a questi anni le amicizie con due grandi maestri del diritto come Francesco Carrara e Filippo Serafini, senza dimenticare il forte legame con Giosuè Carducci. Fu proprio il grande poeta a stargli vicino quando, nel 1869, morì Maria Deciani, la sua adorata moglie. Nella raccolta Levia Gravia si può ancora oggi ammirare In morte di Maria sua moglie, sonetto che Carducci dedicò all’amico.

Quando anche Pordenone passò all’Italia unita, Pietro Ellero non poté sottrarsi alla candidatura per le elezioni della Camera dei Deputati. Fu eletto due volte, nel 1866 e anche nell’anno successivo per le elezioni anticipate, ma dopo due anni si dimise a causa dell’astio che nutriva verso il parlamentarismo e le sue lotte di partito.

Egli era un assiduo sostenitore dell’Italia risorgimentale, ma era anche un grande critico di quello che, nel frattempo, il suo paese era diventato. In alcuni suoi scritti, come La questione sociale, La tirannide borghese, La riforma civile e La Sovranità popolare, accentuò la critica verso le oligarchie parlamentari e l’élite borghese, e si schierò apertamente a favore del suffragio universale.

Una volta conclusa la sua esperienza da deputato, tornò a occuparsi del mondo accademico e scientifico. La sua carriera di giurista continuò inarrestabile: nel 1880 divenne magistrato della Corte di Cassazione e, dopo dieci anni, ottenne la nomina al Consiglio di Stato. Importantissimo fu pure il suo contributo alla realizzazione del Codice Zanardelli, il codice penale italiano del 1889: il primo codice che aboliva in Italia la pena di morte.

Ci troviamo al cospetto di un luminare, di un pensatore con pochi eguali nella sua epoca, che dedicò tutta la sua vita allo studio, alla ricerca e alla lotta per un ideale, la vittoria della vita sulla morte, che riuscì a veder realizzato quasi trent’anni dopo l’uscita del libro che l’ha consegnato alla storia.

Morì a Roma nel 1933, alla veneranda età di cent’anni, ma fece in tempo a vedere l’ultimo grande tributo riservatogli: nel 1928 l’Università di Bologna inaugurò un monumento al suo illustre docente.
Il giusto omaggio a uno dei più grandi figli della città sul Noncello.

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