Giulio è un fotografo friulano di ventinove anni. Il focus della sua macchina è rivolto principalmente alla street photography, e può vantare diverse collaborazioni con testate nazionali ed estere (Der Spiegel, Click Magazine, Independent, Messaggero Veneto, Inspired Eye, digitalreview), mostre personali a Tolmezzo e Udine; ha vinto il premio Treccani “Eccellenza del web” e il Nikon Forum Contest 2015, tenuto conferenze in molti circoli fotografici, scuole e atenei della nostra regione. I suoi reportage provengono dalle osterie udinesi e dal confine turco-siriano, i soggetti sono uomini sedentari – estimatori del tajut del primo pomeriggio – e uomini che nascono per la seconda volta – partoriti dal mare, sulle coste siciliane.  Lo abbiamo raggiunto per una chiacchierata intorno alla fotografia, al giornalismo e alle tradizioni della nostra terra.
Ecco cosa ne è emerso.


Partiamo dall’inizio: come ti sei avvicinato alla fotografia?
Beh, io ho avuto la fortuna che i miei genitori fossero grandi viaggiatori: ricordo che, da piccolino, abbiamo girato tutta Europa in camper. Ho potuto vedere molti posti differenti. Cercavo sempre di osservare, di trovare particolarità e diversità, che sono quello che la mia fotografia vuole raccontare. Quando scattavo, il consiglio di mio padre era quello di non fare mai foto da cartolina, già viste. Prestavo allora il mio occhio alla diversità: forse la mia passione è iniziata già da lì. Poi, con la scoperta del cinema, ho scelto di iscrivermi al liceo con indirizzo di fotografia e filmica, ma col tempo ho capito che il mio mezzo fosse la macchina fotografica. Ho proseguito, ho imparato le basi che mi sono servite poi per poter scattare in modo soddisfacente: la tecnica è importante, senza non si arriva a nessun risultato di spicco. In seguito, per un periodo ho lasciato la macchina in un armadio, per poi riavvicinarmici con la paesaggistica, ma mi sono reso conto che il mio interesse fosse rivolto alla street photography, perchè era quella che riusciva a raccontare meglio quello che vedevo in città. Mi piace raccontare le scene di vita cittadina.

Ciò che mi affascina maggiormente dei tuoi scatti è la commistione tra ritrattistica a reportage: voglio dire, quando scatti una fotografia non è quasi mai per isolare il tuo soggetto da ciò che gli sta intorno, ma per raccontare del suo rapporto con lo scenario in cui è immerso.
Ovviamente gli scatti non devono solo isolare il soggetto, mi piace cercare di ambientare e contestualizzare ogni ritratto. Bisogna raccontare sia il soggetto che il suo background: altrimenti è solo un volto. Mi capita però di fare anche primissimi piani, e in questi caso aggiungo una piccola videocamera sulla macchina per girare un filmato grezzo che racconti la scena che sta dietro allo scatto, dal clack! dell’otturatore al mio rapporto coi soggetti che immortalo.

La tua serie sulle osterie friulane racconta l’esperienza di luoghi che rappresentano molto più che bar: si tratta di sale in cui trovarsi con gli amici o immergersi nel privato di una lettura, godere del taciturno piacere di un buon vino o di una più conviviale briscola. Cosa ti ha attratto inizialmente?
Mi piace documentare la tradizione, le scene che provengono da lontano e che spero non si perdano nel tempo. Credo che la nostra generazione non lo permetterà, ma in quel caso avrei prodotto una testimonianza fotografica del passato. Voglio cogliere la naturalità, la maggior parte delle volte i miei soggetti non si accorgono nemmeno di essere fotografati. Altre volte invece ci mettiamo a parlare, beviamo assieme: mi è capitato così di conoscere persone nuove, conoscere storie.
Peraltro
Pepata di Corte, un’osteria udinese, espone una selezione di dieci mie foto scattate all’interno della stessa. E’ partito tutto da una bella idea del proprietario. Questa serie è stata ripresa anche dall’Independent on Sunday [è possibile trovare l’articolo a questo link, ndr], l’edizione domenicale dell’Independent,  famosa testata inglese. Hanno trovato queste foto sul mio sito giuliomagnifico.it e mi hanno chiesto di raccontarle e raccontare la vita in Friuli. La stessa intervista è stata poi ripresa dal Messaggero Veneto.  

Hai anche all’attivo diversi reportage da zone calde: il confine Sloveno-Croato, Turchia, Siria e Iraq. Come cambia il tuo approccio in quelle situazioni, e cosa invece resta invariato?
Ovviamente in quei contesti cambia tutto: bisogna preparare meticolosamente il viaggio, sapere dove andare e dove non metter piede, come affrontare ogni situazione. Al momento dello scatto, al contrario, le mie azioni restano invariate: mi avvicino alle persone e mi faccio vedere con la fotocamera, e se mi fanno capire con un gesto o un sorriso che a loro sta bene essere fotografati, scatto. Comunque è necessario prestare sempre la massima attenzione: essere rapiti è una concreta possibilità. Le prime volte, quando si assiste a scene forti o ad interventi della polizia, tremano le mani: si tratta di una prova che colpisce, che mette a forte disagio. Anche se, dopo qualche esperienza, si inizia ad avvertire il valore umano di queste storie.

Se dovessi scegliere uno e un solo obiettivo, quale sarebbe?
Io ne uso solamente due: ho un 35mm f/1.4 e un 105mm macro, ma potrei usare quasi solo il 35. E’ una lente che va bene per tutto, io l’adoro, la tengo attaccata alla macchina anche per mesi senza mai cambiarla: facendo un passo in avanti si ottiene un ritratto, facendo un passo indietro una scena. E’ un obiettivo polivalente.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Coi viaggi si vive molto alla giornata: potrei partire in qualsiasi momento. In ogni caso avevo in mente, per quest’estate, di andare con un mio amico tra Siria, Libano e Iraq. Ho poi in programma un’esposizione al Med Photo Fest, che si tiene a Catania col patrocinio del Ministero dei beni culturali. In precedenza lo hanno vinto fotografi come Scianna, Berengo Gardin, Leone.

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