Lasciato il processo sotto la Loggia proseguiamo lungo la Contrada: è una bellissima giornata per fare una passeggiata. Lungo il percorso incrociamo diverse persone: dal mercante che contratta per una botte di vino, al fattore che nel suo carretto, trainato da un asino, trasporta materiale edilizio, probabilmente destinato al Palazzo del comune o al campanile.

A tal proposito ci accorgiamo di una cosa: gli edifici ai lati sono fatti tutti di legno. Ci danno quasi l’impressione di essere in uno di quei villaggi in montagna, con terrazzine e finestre piccole e ben decorate. Non sono ancora le residenze nobiliari rinascimentali di stile veneziano che siamo abituati a vedere, ma semplici abitazioni in legno che poggiano su una base di pietra. A differenziarle ulteriormente da ciò che abitualmente abbiamo sotto gli occhi è la mancanza del porticato, se non per brevi tratti dove spunta qualche bottega o l’ingresso di qualche casa nobile.

Nel proseguire facciamo molta attenzione a non sporcarci troppo: mancando la pavimentazione, stiamo camminando esclusivamente sulla nuda terra. Essendo un periodo secco, non dobbiamo preoccuparci tanto del fango, quanto ciò che potenzialmente potremmo calpestare: anche se severamente proibito, pena una multa, era cosa comune vedere casalinghe che gettavano i liquami di un’intera famiglia dalle finestre in strada; senza contare che nessuno raccoglieva gli escrementi che gli animali facevano al loro passaggio. Immaginatevi quindi la puzza.

Dopo 10 minuti di buona passeggiata arriviamo all’estremità opposta a dove siamo entrati: la Porta trevigiana o della Bòssina, ovviamente aperta. Al di fuori, dove in futuro sorgerà Piazzetta Cavour, c’è una lieve bassura paludosa poco estesa, con un sentiero che prosegue dritto verso le montagne: il futuro Corso Garibaldi. Curiosamente le due rogge che circondano le mura, e che scendono verso il fiume, qui non si toccano. Non c’è alcun ponte, solo una modesta discesa. All’orizzonte, oltre all’immancabile scenografia delle Prealpi e del tricorno del Monte Cavallo, boschi e coltivazioni abbandonate.

Alla nostra destra, sempre entro il borgo, notiamo una strada che costeggia la cinta muraria, sicuramente quella di servizio in caso di aggressione. Decidiamo quindi di seguirla. Non è molto ampia, ma nemmeno così stretta; ci passerebbe tranquillamente un carro trainato da cavallo. Seppur molto più alte, le mura sono come i resti che vediamo ancora oggi, fatte di semplici mattoni anziché pietra. Si tratta di un’mmagine comune a molti villaggi e città: un’apparentemente fragile città in legno entro spesse mura rinforzate.

In meno di 3 minuti raggiungiamo un’altra porta d’ingresso alla città, la Porta delle Monache, che dà sull’omonimo ponticello. Per poterci orientare meglio, basti pensare che oggi, al posto del bastione d’ingresso e dell’attraversamento della roggia, c’è via Cesare Battisti, con sullo sfondo la biblioteca e ai lati il Teatro Verdi e la gelateria “Al Verdi”. Pieno centro si direbbe, ma all’epoca era, come tutte le uscite, la via per la campagna. Il ponticello, come la Porta della Bòssina, avrà sufficiente vita da essere fotografato verso la fine del XIX secolo, prima di venir anch’esso interrato assieme alla roggia e sostituito prima da un anonimo edificio e poi dall’odierno ex palazzo della Telecom.

Proseguiamo lungo le mura. Dopo una piccola deviazione che ci ha separato dal percorso, sbuchiamo in uno spiazzo aperto: non sembra una piazza propriamente detta, ma più un grande orto-giardino, coltivato solo in parte. Sorprendente! Chi mai poteva essere così ricco da permettersi un così vasto terreno entro le mura? Alziamo gli occhi e abbiamo la risposta: l’orto fa parte del Castello, che è dimora del capitano austriaco della città. L’edificio, terminato 39 anni fa, nel 1276, non ha la forma dell’attuale carcere, o meglio è simile ma ha ancora il suo aspetto classico medievale.

Per avere conferma di chi ci abita, chiediamo a un ragazzo di passaggio: come ci aspettavamo, risponde che è il Capitano imperiale, ma, per come ce lo fa intendere, l’inquilino non è granché amato, date le frequenti tasse che egli impone sulla città. Afferma inoltre che non era cosa nuova: era da tanto tempo che questa storia andava avanti, indipendentemente da chi fosse a riscuotere.

Noi siamo a conoscenza che questa questione delle gabelle per il mantenimento del “governatore”non cesserà del tutto nemmeno durante il periodo veneziano. Forse è per questo che nel corso della sua storia i pordenonesi non hanno mai tanto tenuto in considerazione il Castello, vedendolo come simbolo del potere esattoriale, al punto da renderlo, dopo alterne vicende, l’attuale carcere. Chissà se è veramente così. Tornando a noi, diversamente dall’edifico, l’orto sparirà solo tra due secoli e mezzo, quando sorgerà Piazza della Motta.

Sta ormai calando il sole. Lasciato lo spiazzo dell’orto, decidiamo di fermarci per la notte in una locanda poco distante, che, guarda caso, sorge al posto del Convento di San Francesco (la cui costruzione inizierà tra un secolo esatto). L’ambiente interno è rustico ma, come la casa del contadino, dignitoso e accogliente. C’è nell’aria odore di vino in botte ma nel caminetto acceso non c’è niente sul fuoco: come già abbiamo avuto modo di vedere, la carestia degli anni precedenti non aveva di certo rifornito le cantine. Già il fatto che l’oste avesse il vino la diceva lunga sulla sua abilità a trattare il prezzo: chissà quanto aveva dovuto pagare per averlo.

Come cena ci accontentiamo di un piccolo pezzo di pane raffermo. Cortesemente, chiediamo una stanza per la notte. L’oste non ne ha di libere ma ci offre di dormire nel sottotetto; pur di avere un posto in cui riposare, accettiamo senza problemi e saliamo. La soffitta si presenta dignitosa come il resto della locanda: certo, non è una stanza del XXI secolo ma il pagliereccio ha comunque una sua comodità e non c’è né la puzza della strada, né l’odore della locanda. In alto sulla sinistra, una finestra rivolta verso Nord dà sui tetti del borgo. E’ un panorama così bello che è difficile da immaginare: al di là di qualche candela in altri sottotetti, regnava la completa oscurità. Sopra, in assenza della luna, un cielo stellato come lo si vede in montagna. Ci corichiamo e, stanchi, cadiamo in un sonno profondo.

Sarà una notte, questa, che i pordenonesi non scorderanno tanto facilmente…

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