Sembra quasi un romanzo d’appendice, il cui incipit dalle tinte noir rimanda alle immagini di vicoli notturni, frettolosi scambi di buste tra individui intabarrati in caban scuri, gli occhi coperti da fedora colpevolmente calcati sulla fronte: nella nostra Trieste prospera, ormai da quasi due decenni, un fuggitivo.
Perchè Escapista fugga non è dato sapersi, ma la mia ipotesi è che il suo intento sia più nobile di quanto voglia far pensare: ovvero escludere la sua immagine di fotografo dalla mente del fruitore delle sue fotografie. Sfuggire alle definizioni: «E’ un ragazzotto con i capelli un po’ lunghi un po’ arruffati? Fotoreporter. Un uomo di mezz’età alla guida di un pickup e che usa solo corpi Hasselblad? Documentarista».
I suoi lavori, al contrario, sono quanto di più meticcio mi possa venire in mente: godono sia dell’impatto e della forza dell’immagine, statica e immutabile, sia della capacità di tutte le storie nel venire assorbite e digerite in modo estremamente personale. Le foto dalla libreria di Saba sono passate per El Paìs, la serie sul rapporto tra Trieste e il suo mare sul Financial Times e nel cuore di una raccolta di racconti, “I mari di Trieste”. Lo scorso anno, seguendo l’ONG Syrian Children Relief, ha prodotto un reportage dal nord-ovest della Siria (nei pressi di Aleppo, per intenderci). Potete trovare il suo lavoro su escapista.net e su Facebook.


Partiamo dal nome: perché Escapista?
Puff, è una lunga storia. Ti basti sapere che ha a che fare con dei libri, un’illusionista e la voglia di passare inosservati.

La tua fotografia, nonostante sia estremamente eterogenea, ha come costante un tratto che secondo me possiedono in pochi, pochissimi: ovvero una sorta di capacità nel raccontare storie.
Dal punto di vista fotografico ho cercato da sempre di farmi guidare dalla curiosità, all’inizio verso il mezzo espressivo, successivamente verso il soggetto dall’altra parte della lente. Cerco di raccontare chi ho di fronte e, se ci riesco, come è arrivato a questo punto. Ogni tanto cerco anche di creare delle storie che diventano poi dei divertissement fini a se stessi con un protagonista che riesumo ciclicamente.

La fotografia spesso contiene qualcosa di non detto sull’autore: ovvero la sua preparazione. Intendo dire che ci sono tanti fotografi capaci di realizzare begli scatti, ma hanno un’impostazione formale rivolta alla macchina fotografica solo come oggetto artistico, mentre dalla tua ricerca sembra trasparire un background più da giornalista o da raccontastorie.
Il mio background è di quanto più lontano ci sia dal campo artistico o fotografico. Sono sempre stato attratto dalle storie, sui libri, i fumetti o il cinema. Approcciarmi ad esse attraverso la macchina fotografica mi sembrava il modo più semplice ed immediato per farlo. Penso che noi fotografi siamo dei pittori o scrittori falliti: nasconderci dietro un obiettivo ci risulta molto più semplice.

Ultimamente hai affiancato ai ritratti un’intensa attività da fotoreporter, con i tuoi progetti “The desperate ones” e “Syria”: come sei arrivato ad interessarti delle storie di migranti e della guerra in Siria, e che ti hanno lasciato?
Mi ci sono avvicinato un po’ come tutti quanti, con curiosità e voglia di provare a capire la situazione. Ho avuto la fortuna di conoscere un emigrato siriano in Italia da più di vent’anni che allo scoppio della guerra ha creato la sua piccola ONG per aiutare i bambini rimasti orfani nel nord del paese. L’ho accompagnato in uno dei suoi viaggi e da lì è nata la necessità di continuare a raccontare questa storia attraverso i suoi diversi momenti: bombardamenti, fughe, traversate, attese e speranza.

Personalmente ho trovato molto belle anche le tue serie “Emptiness” e “What’s he building”, che ritraggono particolari di paesaggi nel primo caso, e il rapporto vuotopieno dei grossi palazzi nel secondo. Come ti sei avvicinato a queste due serie?
Entrambe queste serie sono ongoing, perché aperto è il mio rapporto con loro. Se dio vorrà, tra quarant’anni ci sarà ancora un orizzonte da vedere ed una costruzione umana da ritrarre.

Lo scorso settembre è uscito per Bompiani “I mari di Trieste”, a cui hanno collaborato nomi come Mauro Covacich, Pino Roveredo e Claudio Magris; tu nei hai curato l’aspetto grafico con i tuoi scatti. Cosa ti affascina del rapporto tra la città di Trieste e il suo mare?
Vivo in città da diciassette anni e devo dire che oramai mi sento triestino a tutti gli effetti. Uno dei motivi che mi ha legato tanto a questa città è stato proprio il suo mare ed il modo in cui lo si vive qui. E’ una presenza costante, mai invadente. Per noi nati tra le montagne, il momento che aspettiamo tutto l’anno è quello in cui andremo al mare. L’uomo non è fatto per viverci lontano.

Quali sono i nuovi progetti che hai in cantiere?
Al momento sono preso dal cercare di capire cosa farne della mole di scatti fatti seguendo i rifugiati dalla Siria all’Europa. Ho bisogno di chiudere il racconto per potere andare avanti.

 

(Per la foto in apertura si ringrazia, chiaramente, Escapista.)

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