La poesia è parte del nostro mondo fin dalla nostra nascita. Le canzoncine di mamma e papà per farci addormentare, le filastrocche ripetute all’infinito con gli amici, San Martino di Carducci, che tutti abbiamo imparato a memoria, i laboratori di scrittura creativa alle medie, la grande letteratura delle superiori: musicalità, rima, ritmo, metafora e simbolismo sono tutti concetti familiari, con cui abbiamo imparato a convivere fin da piccoli. Ma come si sviluppa il sentimento lirico? Quando, da frequentatori quali siamo, diventiamo noi stessi cuore pulsante di un’emozione poetica? Dove nasce la poesia?

In un porto sepolto, direbbe Ungaretti. Un antico porto sommerso nei pressi di Alessandria d’Egitto: una leggenda africana o forse, più probabilmente, una metafora dello scrivere poesia.

Il porto sepolto

 

Vi arriva il poeta

E poi torna alla luce con i suoi

canti

E li disperde

Di questa poesia

Mi resta

Quel nulla

Di inesauribile segreto

Mariano il 29 giugno 1916

Il titolo è decisivo per una piena comprensione: il porto sepolto è l’intimità dell’anima, un luogo a cui non tutti riescono ad accedere. Il poeta vi si immerge, ne raggiunge le profondità, compiendo quella che nel mondo greco era definita una κατάβασις (catabasi): la discesa dell’anima del defunto nel mondo degli inferi. Il poeta scava, scende e poi risale, torna alla luce, attraverso il percorso inverso, una ἀνάβασις (anabasi): appunto, l’ascensione. A questo punto disperde i canti raccolti, li affida al mondo. Cosa gli rimane? L’esperienza segreta, privata, sua propria e inesauribile: la discesa e la risalita, l’essenza.

L’anno scorso, presso la Biennale d’Arte di Venezia, un artista contemporaneo, Giorgio Andreotta Calò, ha proposto per il Padiglione Italia un’esperienza molto simile e per certi versi esplicativa del viaggio poetico di Ungaretti. L’idea di fondo nasce ancora una volta dal mondo antico, precisamente dal mito etrusco-romano del mundus Cereris: nei pressi di Roma si trovava una fossa che fungeva da confine tra due mondi, uno inferiore connesso agli inferi e uno superiore connesso alle realtà terrena e alla volta celeste. Tre giorni l’anno, la fossa veniva dischiusa e il confine aperto, mettendo in comunicazione il mondo dei vivi e quello dei morti. L’evento era celebrato da un rituale chiamato mundus patet, il mondo si apre. L’artista immagina proprio questo momento rituale ed invita lo spettatore ad attraversare i due mondi, immergendosi dapprima negli inferi, per poi risalire alla vita. Lo spazio espositivo del Padiglione è diviso in due livelli, due mondi complementari, opposti, un sotto e un sopra. Lo spettatore vi accede dallo spazio inferiore, una foresta di impalcature e tubi da ponteggio, che sorreggono una piattaforma in legno. Alla fine dello spazio è posta una scalinata, che conduce al piano superiore. Da qui è possibile ammirare un enorme specchio d’acqua, sorretto dalle impalcature e dalla piattaforma sottostante. Sullo specchio si riflettono la volta del padiglione e gli spettatori stessi, creando una prospettiva straniante: lo spazio si amplia e diviene miraggio.

Nell’opera di Calò siamo tutti invitati a compiere un percorso di catabasi e di anabasi, di discesa e risalita nel nostro intimo. Lo spettatore fa esperienza del moto poetico: accedere al porto sepolto che tutti ci portiamo dentro. Ma se l’essenza, ciò che rimane, è il viaggio stesso, cosa troveremo nel nostro porto? Cosa andremo poi a disperdere nel mondo?

Ancora una volta è Ungaretti a rispondere.

Commiato

 

Gentile

Ettore Serra

poesia

è il mondo l’umanità

la propria vita

fioriti dalla parola

la limpida meraviglia

di un delirante fermento

Quando trovo

in questo mio silenzio

una parola

scavata è nella mia vita

come un abisso

Locvizza il 2 ottobre 1916

Il poeta cerca una parola che nel silenzio della sua vita scavi un abisso. Non parla, rimane in silenzio e cerca una parola, non i mille versi del D’Annunzio o del Futurismo, non il chiacchiericcio continuo del mondo, non la confusione delle migliaia di informazioni che ogni giorno ci raggiungono, non il caos di Internet o dei Social. Una parola soltanto, capace di esprimere tutto ciò che egli è, che sia per sempre scavata in lui. Ecco cosa cerca il poeta nel proprio porto sepolto, ecco cosa disperde nel mondo: la propria parola, tutto se stesso. Ed ecco perché la poesia di Ungaretti sembra voler fare a meno di schemi metrici, ritmo e musicalità, di tutte quelle filastrocche che fin da piccoli abbiamo imparato, di tutte quelle antologie che a scuola abbiamo letto. Perché poesia è una parola.

Non una parola a caso, ma l’abisso del poeta. La poesia è dunque espressione di vita, il mondo fiorito dalla parola, è lirica, voce dell’interiorità del poeta. Il delirante fermento non è altro che l’ebbrezza dell’ispirazione, di un’esperienza di vita: la ricerca infinita di una parola limpida, priva di orpelli, pura, vera, sincera, perché trovata nel proprio silenzio, la sola in grado di descrivere l’io. Ecco dove nasce la poesia, ecco dove si disperde, ecco cosa ne rimane. La sfida ora è nostra: quale sarà il nostro verso?

Articolo di Alvise Renier originariamente apparso su Cogito et volo

Lascia un commento