Tahar Ben Jelloun è uno scrittore, poeta e giornalista contemporaneo marocchino nato nel 1944. Essendo nato nella città di Fèz, nel Marocco francese, le sue opere sono scritte nella dolce lingua di Parigi e, molto spesso, affrontano i temi del razzismo e dell’immigrazione, temi molto cari a Ben Jelloun proprio perché vissuti in prima persona.

Ma oggi ci dedichiamo a una sua opera molto famosa che tuttavia cela un tema diverso dai soliti che caratterizzano l’autore. «Creatura di sabbia» (titolo originale: «L’enfant de sable») è un libro che fa tuffare il lettore nel mondo islamico, con un approccio magico e al contempo drammatico e cupo.

Una storia di una famiglia islamica di sette figlie, in cui il padre, fortemente convinto di essere colpito da qualche strana maledizione, decide che l’ottavo figlio di cui la moglie è gravida dovrà essere per forza un maschio. Una nascita tanto attesa, un destino già deciso. Da altri. Un maschio è necessario per tramandare la famiglia e per dare importanza alla dinastia stessa.

Ahmed nasce. Femmina. Ma ormai è tutto deciso: lui è un maschio. Fin da piccolo viene indottrinato a sentirsi, comportarsi, vestirsi come un uomo. E l’ingenuità dei bambini, si sa, viene spezzata solo in età adolescenziale, quando le prime pulsioni, i primi desideri e il proprio carattere iniziano a nascere come boccioli di rosa. Un po’ come è successo alla Gertrude del Manzoni, già predestinata a diventare monaca e ignara di cosa fosse lo “scegliere per sé stessa” fino al diretto confronto con il mondo esterno.

In questa storia dai toni tristi, misteriosi e feroci, si alternano varie voci per raccontare la vicenda di un dramma che si svolge all’interno di una persona, di un corpo, di un’anima.
Un narratore legge dal presunto diario segreto di questa donna i suoi dubbi e la sua sofferenza raccontanti in prima persona. Diventiamo noi stessi quella donna, quell’uomo che non si sente tale e si tortura a tal punto da rinchiudersi in una stanza, che lui stesso chiama prigione, per stare lontano dal mondo.

Pagina dopo pagina, la scorza di questo destino malsano, la buccia del frutto marcio, viene scorticata via e fa scoprire al lettore un mondo pieno di insidie, falsità e sofferenza. La prigione spirituale, fisica e concreta in cui si ritrova Ahmed è solo uno dei tanti mezzi di oppressione che il mondo impone a ognuno di noi.

E, spesso, la forza del pensiero altrui, delle persone soggettivamente – ma non oggettivamente – gerarchicamente più importanti e della società stessa, portano la nostra persona a scegliere di cambiare irrimediabilmente, a nascondersi dietro una maschera che si incolla permanentemente sul nostro viso, a soffocare per sempre ciò che di bello abbiamo in noi: la verità.

Negli ultimi tempi il mio corpo prova desideri sempre più precisi, e non so proprio come arrangiarmi per soddisfarli. […] Ho scelto l’ombra e l’invisibile. Ecco che il dubbio comincia a farsi strada come una luce cruda, viva, insopportabile. Tollererei l’ambiguità fino in fondo, ma non potrei mai esporre il viso nella sua nudità alla luce che si avvicina.

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