Quartiere di Ohlsdorf – quadrante Nord della città di Amburgo, Germania. In un’area prevalentemente erbosa di circa quattrocento ettari tra statue, mausolei, cappelle, tombe e loculi di ogni foggia e dimensione, trovano riposo quasi un milione e settecentomila anime. È il cimitero più grande d’Europa.

E se vi dicessi che tutti voi conoscete un luogo, al quale avete quotidianamente accesso, che di persone scomparse ne custodisce almeno il doppio?

Tre milioni infatti è il numero di utenti, rectius di profili di utenti scomparsi, che sono presenti su Facebook. Un dato destinato a crescere esponenzialmente, a giudicare dalle stime che prevedono per il 2065 il sorpasso degli account dei defunti su quelli dei vivi. Obietterete che Facebook non è un luogo fisico, che i profili degli utenti deceduti non sono resti di carne e di ossa. Lapalissiano, ma superficiale: nell’epoca del Web 2.0 e dell’Internet of Things, reale e virtuale non sono più due concetti dicotomici e mutualmente esclusivi, ma due diversi luoghi di sviluppo della personalità individuale e collettiva che vicendevolmente si influenzano e le cui interconnessioni ci interrogano.

Esempio plastico di quanto affermato si ha in materia di cosiddetta eredità digitale: cosa accade alle nostre proiezioni nel mondo digitale dopo la nostra dipartita? Cerchiamo di dare qualche generica risposta a questa domanda, che sempre più tormenta il (già precario) sonno dei giuristi di ogni latitudine e credo.

In realtà la questione per molti aspetti non pone problemi nuovi: il regime di trasmissibilità di diritti e posizioni soggettive che trovano la loro collocazione nel web (per esempio il diritto d’autore su una fotografia conservata in un cloud, oppure un abbonamento ad un sito di stampa online) segue pur sempre le regole dettate in tema di successioni mortis causa dal nostro codice civile e dalle altre norme dell’ordinamento.

Data questa premessa, sembrerebbe pacifico che ”si ereditino” anche le utenze e i profili online del de cuius; sennonché almeno due ordini di ostacoli meritano di essere considerati. In primo luogo, la cosiddetta questione Santa Clara: la legge che governa i contratti che ognuno di noi stipula al momento della creazione di un profilo online è spesso straniera, quasi sempre quella della California. Questo significa che in caso di controversia tra eredi e piattaforma online, ci si dovrà rivolgere in linea di massima ad una corte californiana, soluzione non esattamente semplice ed economica.

Ciò che appare più problematico attiene invece alle condizioni d’uso che ciascuno di noi accetta con questi contratti. Bisogna infatti fare riferimento ad esse per capire quale sia la policy del fornitore di servizi in materia di gestione e conservazione dei dati di un utente dopo la sua dipartita. In concreto, come si può scoprire dall’articolo Facebook fa scegliere chi gestirà la nostra ”eredità digitale” , apparso sul sito REPUBBLICA.IT il 12 febbraio 2015, “Twitter disattiva l’account in automatico dopo sei mesi d’inattività, LinkedIn solo se qualcuno segnala la morte dell’utente […] [;] Google ha un sistema più flessibile, la “gestione account inattivo”: una specie di esecutore testamentario automatico”. Capofila tra i social sembra essere Facebook con la previsione innovativa di un legacy contact, strumento la cui disamina più dettagliata merita un articolo ad hoc.

Ciò che emerge dallo spaccato descritto (come d’altra parte consiglia anche il Notariato italiano) è che, ancora una volta, prevenire è meglio che curare. Il riferimento è alla possibilità di disporre con un mandato cosiddetto post mortem dei nostri profili online: potremmo così consegnare le nostre password e credenziali, insieme a precise direttive, ad un soggetto di nostra fiducia. Sarà poi egli a provvedere all’adempimento delle nostre ultime volontà, che si decida per la cancellazione dei nostri dati ovvero per il mantenimento parziale o totale dei nostri profili online.

La materia è in costante evoluzione; il modo migliore per seguirne gli aggiornamenti, va da sé, è restare connessi.

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