Emile ha sedici anni. Vive a Parigi da quando ne aveva nove, la sua famiglia si è trasferita da Marsiglia quando suo padre, giornalista di successo, è stato ingaggiato da Le Monde per un reportage in America Latina, che gli ha garantito un posto fisso al giornale. Ad Emile ogni tanto manca il sole della Provenza, ma a Parigi ha fatto molte amicizie: a scuola se la cava egregiamente, anche se un po’ se ne vergogna, e tutto sommato non gli manca niente, soldi, tranquillità, famiglia. Suo padre è spesso in viaggio, e il suo ritorno a casa è un momento esaltante, perché ha sempre moltissimo da raccontare, e sua madre è più felice, sorride di più. Lei gestisce una casa editrice indipendente, e si occupa di critica letteraria. Loro malgrado, i genitori di Emile sono costantemente circondati dalla crème dell’intelligencija parigina, ed Emile è sempre stato a contatto con una quantità quasi nauseante di scrittori, artisti ed intellettuali di ogni sorta. Una vita che può portare ad una certa confusione interiore, ma Emile sa che i suoi sono diversi da tutto ciò, e ne è molto orgoglioso, anche se di un orgoglio parzialmente mitigato dall’adolescenza.

In realtà, per essere un ragazzo di sedici anni, Emile è quasi ineccepibile: il malcelato contegno borghese dei genitori non gli è mai stato imposto in modo da suscitare in lui l’istinto di ribellione, ma si è comunque subdolamente infiltrato nel suo carattere tramite un inestirpabile senso di colpa per le malefatte che ogni tanto combina. Emile possiede comunque una grande capacità di dissimulazione del suo retaggio intellettuale davanti ai coetanei, e riesce comunque a mostrarsi degno di apprezzamento abbandonandosi ogni tanto a qualche trasgressione, di cui pure reprime violentemente gli effetti sulla sua coscienza. In questi termini, recentemente ha saputo del concerto del 13 novembre al Bataclan: non ci è mai stato, l’età minima è 18 anni, e questa volta non vuole assolutamente farsi scappare l’occasione. Riguardo alla musica, non gli importa granché, non ha mai sentito nominare il gruppo che ci sarà, ma sa che un gruppo del genere non sarebbe molto conforme ai gusti dei suoi genitori, che imbarazzati fingerebbero di apprezzare per salvaguardare la propria reputazione di “persone di grande apertura mentale”. L’idea lo fa sorridere, e lo convince ancora di più ad andarci a loro insaputa.

La sera del concerto Emile non riesce a nascondere la sua eccitazione: vuole arrivare in ritardo all’appuntamento per sembrare più disinvolto, ma nel frattempo non sa cosa fare, e continua a guardarsi insistentemente allo specchio. Non ammetterebbe mai di essere così schiavo della propria immagine, eppure è proprio in momenti come questi che nota di avere gli occhi troppo grandi, e la barba che non ne vuole sapere di crescere, i lineamenti troppo angelici per le esigenze della sua età. Si chiede come i suoi amici non se ne rendano conto, e si risponde che magari se ne rendono conto ma non lo dicono, perdendosi nel turbine di paranoie che così poco si addice all’immagine che vorrebbe dare di sé. Alla fine, intimando un’ultima volta al proprio riflesso di smettere di toccarsi convulsamente i capelli, si decide ad uscire.

Scende in strada che sono le nove passate, e meccanicamente imbocca Rue Oberkampf. Si deve incontrare con un gruppo di amici davanti al Pierre Sang e poi andranno insieme al Bataclan. Qualche giorno prima ha chiesto il documento di un suo amico diciannovenne che gli somiglia, o quanto meno, questo è ciò che continua a ripetersi. Se lo ripete in testa mentre fa la fila per entrare, e al suo turno con gli occhi bassi mostra il documento. Attende il verdetto con i pugni serrati dentro le tasche. Lo fanno passare. È fatta! Entrando raggiante si fa strada con gli amici in mezzo alla calca: la musica è veramente assordante, ma il problema più grande è dover farsi strada in mezzo ad un migliaio di metallari incazzati. Ovunque si gira vede sguardi terrificanti, di persone terrificanti. È spaventato, ma è una situazione estremamente eccitante, gli sembra in quel momento di fare parte di un mondo diverso, più adulto, e pensa sprezzante alle proprie paranoie davanti allo specchio. Non sa perché ne è così attratto, intorno a sé vede uomini e donne di aspetto quasi ripugnante, e il suo contegno borghese ne è scandalizzato. Non sa perché, ma li invidia enormemente. Gli sembra quasi perverso, ma non può farci niente, quindi cammina a testa alta soffocando la propria timidezza.

Emile si vergogna della propria corporatura, insignificante rispetto ai giganti che nota in giro per il locale. Non ha le forze per rimanere sempre nello stesso punto, la folla lo trascina dappertutto senza che possa farci niente. Un uomo che non sembrava molto uomo gli ha fatto l’occhiolino, ma uno strattone improvviso l’ha allontanato di nuovo, fino a convincerlo di esserselo immaginato. Si attacca ad un amico, Fabrice, un tizio di diciannove anni che ha conosciuto a scuola e che ammira quasi morbosamente, al punto dal sentirsi ferito nell’orgoglio, a vedersi strisciare così davanti a qualcuno. Con due ragazze vanno a prendere da bere, e Fabrice gli porta una birra bionda in un bicchiere di plastica: la birra non gli piace, e poi il bicchiere è enorme, sarà mezzo litro, ma in quel momento l’unica cosa che riesce a fare è afferrarlo e buttarne giù il contenuto. È gelata, troppo fredda al contatto con la gola: Emile è colto alla sprovvista e gli va tutto di traverso, boccheggiando non riesce a tenere il bicchiere che spande per terra e sulla gente intorno. Gli esce birra dal naso. Cerca di ignorare gli insulti della gente e di coprirsi come può, Fabrice ride. Non è una risata cattiva, ma anche le ragazze ridono, e questo è troppo da sopportare.

Voltandosi per non farsi vedere, Emile cerca goffamente di riprendersi, ingoia quel poco di birra rimasta e butta il bicchiere a terra. Ritrovata la propria dignità, cerca Fabrice e gli altri suoi amici con lo sguardo, ma sono scomparsi: smarrito, si volta in tutte le direzioni ma non riesce a vedere niente, in effetti la folla sembra impazzita, lo urtano continuamente da ogni parte, ma gli sembra che stavolta la gente non si limiti a dimenarsi a ritmo di musica. Corrono, corrono in tutte le direzioni, ciecamente. Gli sguardi si sono fatti terrorizzati, c’è qualcosa che non va… si accorge in questo momento di quanto sia ubriaco, o forse semplicemente intontito, lo coglie un moto di vergogna per essere in quelle condizioni dopo una birra soltanto, e allora cerca di concentrarsi sulla realtà. Cerca di spostare l’attenzione sulla musica, che non aveva molto considerato fino a questo momento, ma la batteria gli sembra più assordante di prima, e meno regolare.

Un uomo tarchiato gli si para a venti centimetri di distanza, un bestione in camicia di jeans senza maniche e un tribale tatuato sul bicipite. L’uomo si tiene la pancia e lo guarda: cade sulle ginocchia, gli afferra i vestiti e lo fa cadere davanti a sé. Emile è spaventatissimo, comincia a non capirci più niente, scalcia e cerca di sottrarsi alla morsa, ma ad un certo punto si ferma, lo guarda negli occhi, occhi grandi come i suoi, occhi smarriti di un bambino che non trova i genitori. L’uomo ha la bocca aperta, contratta in una smorfia indescrivibile, i suoi lineamenti pietrificati esprimono un terrore tale che Emile non riesce a distogliere lo sguardo: lo vede emettere un ultimo debole rigurgito di sangue sui suoi vestiti, e riversarsi inerte sul suo grembo.

Emile non aveva mai visto un uomo morire, e ci mette qualche attimo a realizzare l’accaduto. Non ha le forze per allontanare il corpo inerte da sé. Alza gli occhi al cielo ma vede solo una marea di piedi, gambe, braccia, tutto si muove e non c’è un punto fermo che lo possa tranquillizzare. La musica è cessata ma gli spari persistono, sembra non finire mai… è questo l’inferno? Non pensava che l’avrebbe conosciuto così presto. La gente lo urta in continuazione, ma lui non sente più niente, si guarda intorno spaesato. Ad un certo punto qualcosa attira la sua attenzione, è un uomo, anzi un ragazzo, avrà venticinque anni, che non ha niente a che spartire con gli altri. Lui non ha paura, lui non scappa, è in preda ad uno stato di esaltazione che Emile non aveva mai visto in una persona, gli occhi fuori dalle orbite guardano senza vedere, non si concentrano su niente come se dominassero la scena dall’alto, soggiogati dalla follia ma pienamente padroni di sé, Emile ne è ipnotizzato… non sa come, ma ad un certo punto si rende conto che il ragazzo ricambia lo sguardo, i loro occhi si fissano per un attimo, e quegli occhi sono l’ultima cosa che Emile vede, prima del buio.

[…]

Fuori dal Bataclan è il delirio. Le sirene rosse e blu dell’ambulanza gettano sulla scena una luce surreale, molti stanno in silenzio, molti gridano, molti riposano inerti sul selciato. Emile si risveglia con addosso una coperta termica e un fortissimo dolore alla tempia, tanto intenso da non permettergli in un primo momento di realizzare quanto è accaduto. Si ritrova appoggiato ad una colonna davanti a una vetrina rischiarata dai fari delle macchine della polizia: nessuno sembra badargli, c’è un gran via vai di persone ma non gli riesce di concentrarsi su nessuno. Il suo riflesso sulla vetrina è abbastanza nitido da fargli notare un enorme livido violaceo che gli occupa gran parte della fronte. Deve aver perso i sensi in un urto particolarmente violento con la gente che scappava. A malapena riesce ad alzarsi in piedi, e alla prima occhiata si rende conto di essere in mezzo ad uno spettacolo spaventoso.

A pochi metri di distanza vede una donna inginocchiata sopra un ragazzo steso a terra. La donna stringe tra le dita la testa del ragazzo, gli conficca le unghie dei pollici sulle guance fino a farle sanguinare. Da un piccolo cerchio rosso scuro tra gli occhi chiusi del ragazzo scende un rivolo di sangue ormai secco. La donna ha gli occhi al cielo e grida, di un grido che Emile non aveva mai sentito, un grido che ha ben poco di umano, uno stridore sordo di giganteschi ingranaggi di metallo… Emile non riesce più a guardare, l’aria di Parigi è soffocante, un odore nauseabondo permea ogni molecola d’aria a disposizione.  Si copre il viso con le mani, cerca di svegliarsi, ma si rende conto che i suoi sensi sono al massimo delle proprie capacità. Gli occhi gli bruciano, se li sfrega con i pugni chiusi, ma bruciano ancora di più. Si guarda le mani, rossastre, umide e appiccicose, e timidamente risolleva gli occhi verso la vetrina. Ci mette un attimo a mettere a fuoco, ma ciò che vede poi gli fa mancare le forze.

L’innocenza dei suoi lineamenti angelici, infantili, goffamente incattiviti dai ridicoli baffi adolescenziali non esiste più. Emile guarda il riflesso e poi si guarda addosso un’infinità di volte, vede sangue dappertutto, sangue che non è il suo. Il livido violaceo sulla sua fronte sembra essersi conquistato l’intero spazio disponibile, dalla radice dei capelli al mento, fino al collo. Lo sguardo che Emile vede riflesso sulla vetrina è ben più terrificante degli sguardi che aveva incontrato appena entrato al Bataclan, in un passato che non riesce a quantificare, un momento che sembra appartenere ad un’era geologica precedente. Lo spavento che provava davanti a quegli sguardi era quello del ragazzo di fronte all’uomo, ma ciò che prova ora è diverso, è lo spavento dell’uomo di fronte alla bestia. Emile si guarda i vestiti, strappati e anch’essi imbrattati di sangue, assurdamente pensa alla sua camicia preferita, ora ridotta ad uno straccio maleodorante. L’odore lo investe di nuovo: è la cosa più terribile, un odore ben più intenso di qualsiasi suono, un odore di carne viva, reso ancora più intenso dalla coltre di nebbia giallastra che sembra essersi impadronita della città…

Ciò a cui Emile ha assistito questa notte non è l’inferno. L’inferno non è di questo mondo, l’inferno è un’immagine ideale, alimentata dalla paura del proprio creatore; dietro la miriade di sguardi persi nel vuoto, di lamenti e grida laceranti, si nasconde la realtà, la realtà autentica che i suoi occhi di sedicenne non potevano vedere, non fino a questo momento. Emile tiene gli occhi ancora inchiodati al proprio riflesso, e si rende conto in un momento che quel riflesso è il proprio vero volto, è il volto della bestia che si nasconde in lui, e in tutti gli altri. Con una consapevolezza che ben poco ha ormai di adolescenziale, Emile capisce che se c’è del male in questo mondo, è nella propria natura, nella natura stessa di ognuna delle persone con cui ha avuto a che fare nei suoi sedici anni di vita, negli artisti dei circoli parigini, nei compagni di classe, nei professori, persino nei suoi genitori.  Se non fosse nate in Francia, se fosse stato educato alla guerra, al fanatismo, fin dall’infanzia, il responsabile di questo massacro potrebbe essere lui, potrebbe essere chiunque, e potrebbe non esserlo nessuno. Ciò che impedisce che gli uomini si distruggano a vicenda, si nasconde proprio in quegli occhi grandi, in quei lineamenti angelici che prima tanto disprezzava. Ora che Emile sa cosa le sue mani sono potenzialmente in grado di fare, capisce l’inestimabile valore dell’infanzia in un uomo adulto. La capacità di stupirsi, di giocare, di sorridere, è di fatto l’arma più potente che un essere umano ha a disposizione, il modo più efficace per restare umano.

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